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Informazione sulla pubblicazione:
Libri nostri: FABIO MASSIMO TEDOLDI, La dottrina dei cinque sensi spirituali in San Bonaventura

 
 
 
Foto , Libri nostri: FABIO MASSIMO TEDOLDI, La dottrina dei cinque sensi spirituali in San Bonaventura, in Antonianum, 75/1 (2000) p. 197-199 .

Fin dagli albori del cristianesimo, gli scritti di molti autori spirituali brulicano di espressioni che rimandano ad una sorta di duplicato della sensorialità esterna, ad un secondo ordine di sensi i quali affondano la loro radice non già negli organi del corpo ma nel terreno del cuore, sensus cordis, come innervati nell’interiorità della persona, sensus interiores, quasi che lo spirito dell’uomo ricevesse in dotazione suoi sensi per conoscere e per fruire, sensus spirituales. Quest’ultima espressione, sensus spirituales, ‑ che da Origene a Bonaventura ha avuto maggior successo – è un’espressione aporetica, una sorta di trasgressività linguistica: come conciliare il sensus con lo spiritus, dal momento che il primo ha la sua radicazione nell’immanente, mentre il secondo attiene all’eterno? Ma proprio questa aporia linguistica sta alla base del fascino della Dottrina dei cinque sensi spirituali, là dove la chiaroscurale dinamica dei due opposti estremi, il sensus e lo spiritus, viene ricondotta ad unità. Questo è il nucleo della Dottrina: si tratta di far salire i sensi allo spirito e di inumare lo spirito nei sensi. Eternare il sensus nello spiritus,‑ che è come dire, immettere nella conoscenza operata dalla “carne” le dimensioni della conoscenza attinta dallo spirito, rendere infinito il segmento conoscitivo dell’esperienza hic et nunc affinché non vada perduto nell’oblio dell’insignificanza; consacrare la “terra” dei cinque sensi corporali elevandola al “cielo” dello Spirito. La Dottrina si prefigge, congiuntamente, di riempire lo spirito di senso: di dare, cioè, alla gnoseologia soprannaturale la concretezza del conoscere sensoriale, di infondere vita – la vita della luce, delle armonie, dei sapori, delle fragranze, del toccare – e di ammettere la categoria di esperienza al rapporto con Dio, come immergendolo nella quotidianità del nostro vivere. Così che abbia una sua sperimentabilità e un suo riscontro nell’hic et nunc entro cui sì svolge l’avventura del mio essere psico‑corporeo e anima incarnata.

Fin dal suo nascere, la Dottrina ha inteso strutturare il bisogno dell’uomo di essere integralmente aperto alla conoscenza di Dio, foris e intus, rifuggendo da ogni riduzionismo intellettualista e dall’esiziale dualismo antropologico che ne renderebbe asfittico lo slancio. E in questo senso, essa ha influito non poco nel comporre un’antropologia unificata ed equilibrata.

La Dottrina include, ancora, un anelito: il sogno di colmare il vallo che separa la conoscenza dall’amore. Svelando, infatti, come l’atto percettivo sia anche, e nello stesso tempo, un’esperienza di unione tra il cognoscens ed il cognitum, giunge ad identificare cognitio e fruitio, inglobandole nel termine di experientia nel quale entrambe si riconoscono. Tale anelito, poi, ha un corollario che consiste nell’inviare un inesauribile richiamo affinché la conoscenza si riempia di esperienza, divenendo una cognitio experientialis, nella quale la persona raggiunge la massima dilatazione delle sue possibilità conoscitive e fruitive, anche, a motivo dell’“Oggetto” di questa perceptio, un oggetto davvero excessivus.

 

La storia della dottrina giunge a noi dalle due tradizioni orientale ed occidentale, che vengono in qualche modo fuse nel periodo medievale, dapprima attraverso l’arte della defloratio e poi nelle più sistematiche opere scolastiche. San Bonaventura riceve dai suoi Maestri la Dottrina e “1e conferisce una forma che corrisponde alle caratteristiche del suo ingegno” (H. U. von Balthasar). “Il vigore speculativo e la profondità mistica con cui Bonaventura ha utilizzato l’eredità tradizionale dei cinque sensi spirituali” (K. Rahner) ha immesso nella Dottrina una tale ricchezza che merita d’essere riportata alla luce. Questo princeps della mistica, infatti, ha operato anzitutto una sintesi organica dell’eredità trasmessagli che egli non ha assemblato come un tenuis compilator, ma piuttosto ha vagliato con grande padronanza delle fonti, utilizzando una straordinaria abbondanza di materiale. Così la Dottrina bonaventuriana si iscrive entro quella “metafisica della mistica cristiana” la quale ha raggiunto col Dottore Serafico il “punto culminante”, costituendo “la sintesi più completa che sia mai stata realizzata”(E. Gilson). Bonaventura, poi, inserisce la natura dei sensi spirituali in seno “a un’antropologia sorprendentemente unificata e integrale” (E. Falque), perlustrando i sensi del corpo e i dati della sensibilità la quale nel Medioevo “non è mai stata valutata cosi positivamente come in Bonaventura” (H. U. von Balthasar). Anzi, il corpo riveste il ruolo di un “ermeneutica esistenziale” (J. A. Merino ), così come i sensi corporali offrono a quelli dello spirito il loro prezioso ministerium di proportio e di conformitas. Per Bonaventura la congiunzione dei termini sensus spirituales si radica nel coniugare il dato empirico con il dono di grazia. La sua gnoseologia, poggiata sull’habitus deiformis della grazia e sull’esercizio sensoriale, è efficacemente espressa dalla Dottrina dei sensi spirituali. Questa, perciò, rappresenta un suggestivo punto di convergenza tra antropologia, gnoseologia o mistica, nella loro coesiva aspirazione a raggiungere e ad unirsi all’Amore.

La Dottrina, ancora, svela anche la sua valenza estetica. “Tra i grandi scolastici, Bonaventura è quello che nella propria teologia dà più spazio alla trattazione dei bello” non prima di tutto perché ne tratta ovunque, quanto piuttosto “perché vi esprime palesemente una intima esperienza” (H. U. von Balthasar). E quale sinfonia è migliore di quella approntata da sensi che, proprio perché spirituali, realizzano le loro perceptiones attingendo a quei superlativi di pulcritudines, harmoniae, suavitates, fragrantiae, amplexus emananti dallo stesso Dio? La Dottrina bonaventuriana, così, non solo conduce la conoscenza all’amore, nell’unione, ma ne esprime anche l’intrinseca bellezza.

Infine la Dottrina consegna un metodo a coloro che intendono incamminarsi sull’itinerarium della santità: “il senso del cuore deve cercare con desiderio, trovare con gioia ed ancora ricercare incessanternente ciò che è pulcrum, consonum, odoriferum, dulce, mulcebre” (De reductione, 10). Delinea così il clima entro il quale si esercitano i sensi spirituali: un desiderium che trasforma la sequela Christi in un currere nella ricerca dei suoi vestigia odorifera; una gioia conseguente alle delectationes e agli oblectamenta, agli oscula e agli amplexus; infine una mai sopita brama di ricominciare daccapo, dal momento che la Fonte dei piacere è inesauribile e tutto al confronto non è che “una gutta, una modica scintilla” (Soliloquium. 1, 12).

Il libro dedica i primi tre capitoli alla perlustrazione delle fonti, tracciando una storia della Dottrina nei filoni orientale e latino ‑ la più consistente finora realizzata – concentrandosi sul periodo immediatamente precedente l’insegnamento di San Bonaventura. I tre capitoli centrali presentano i testi dottrinali del Dottore Serafico, mentre gli ultimi tre capitoli mostrano sistematicamente la Dottrina tanto nel suo duplice fondamento (empirico e soprannaturale) quanto nell’oggetto di conoscenza, delineando, infine, il Poverello d’Assisi come icona del sentire, come Dottrina realizzata nella pratica della sua esperienza spirituale, là dove il tactus di Francesco è toccato dal digitus Dei vivi nel mirabile contactus sigillato dalle stigmate.

 



 
 
 
 
 
 
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