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Rivista Antonianum
Informazione sulla pubblicazione

 
 
 
 
Foto Buffon Giuseppe , Recensione: JOHN M. GIGGIE E DIANE WISTON, a cura di, Faith in the Market. Religion and the Rise of Urban Commercial Culture , in Antonianum, 78/3 (2003) p. 590-592 .

I curatori del volume, nell’introduzione, invitano ad una passeggiata lungo le strade delle città nordamericane, al fine di osservare come i diversi edifici adibiti a culto si alternino ad altri fungenti come negozi, banche, uffici commerciali, agenzie e quant’altro fa parte di una architettura urbana, frutto di quel ‘modus vivendi’ che viene da loro definito ‘cultura commerciale’. Essi intendono affermare, con ciò, che non si dà soluzione di continuità tra urbanizzazione, religione e cultura materiale. Il successo della proposta religiosa coinciderebbe, allora, con la capacità di saper sponsorizzare il proprio modello di salvezza, la propria esperienza spirituale, attraverso una serie di strumenti presi a prestito dal mondo della pubblicità, del commercio, della moda, con l’avvalersi cioè del linguaggio creato dalla ‘cultura commerciale’.

D’altro canto, anche nel ‘magazzino delle maschere’, adottate dall’indu-stria pubblicitaria, sarebbe concesso ampio spazio a simboli di carattere religioso. I dodici autori dei saggi raccolti in quest’opera si riconoscono, infine, in una nuova proposta storiografica, nata intorno agli anni 1990, con i saggi di Laurence Moore e Leigh Schmidt, nei quali si affermava che “religion and commerce have been commigled throughout much of human history and increasingly so in a democratic society where, once disestablished, religion needed to ‘sell itself to survive” (4). Gli stessi prendono dunque le distanze da autori, quali Weber e Harvey Cox, i quali avevano profetizzato l’avvento delle ‘città secolari’, e da altri, come Dixon (The Failure of Protestantism in New York and Its Causes, 1896), che aveva legato la sopravvivenza della religione alla sua ‘utilità sociale’, analogamente ad agenzia postasi a servizio dei più poveri.

I saggi proposti nel volume vengono divisi in tre gruppi: 1) la sperimentazione evangelica; 2) la trasformazione del protestantesimo; 3) l’adattamento delle minoranze. Nel primo gruppo viene evidenziato come l’ambiente urbano, lungi dal proporsi come lo spazio dell’anti religione, intesa nell’accezione di ateismo, immoralità, secolarismo esasperato – prospettiva tenuta presente in studi precedenti – si dimostri, invece, come il campo adeguato alla sperimentazione di nuove proposte religiose e culturali. Le aderenti all’Esercito della salvezza (1880-1890), come dimostra Diane Winston, adottando un’uniforme, che le presenta come ‘desessuate’, conseguono per la donna l’ingresso in un ambito sociale in precedenza riservato ai soli uomini. E ciò sta a conferma di come un simbolo religioso abbia potuto far avanzare il genere femminile sulla via della modernizzazione professionale.

Il secondo saggio, di David Morgan, sembra proporre, invece, un percorso inverso, dimostrando come la modernizzazione della realtà religiosa, in questo caso l’evangelizzazione, sia stata possibile grazie all’adozione mirata di tecniche visuali, quali foto, poster ed altro. In maniera simile sembra muoversi pure Fran Grace, autore del quarto contributo. Anche i fondamentalismi, come argomenta Terry Todd riguardo al caso di John Straton (1920-1930), che sembrerebbero impermeabili alla ‘cultura commerciale’, per la battaglia che essi dichiarano contro i prodotti della modernità, sembrano assumere, a poco a poco, gli strumenti dei loro avversari.

Il secondo gruppo di articoli riguarda il problema della trasformazione     istituzionale, avvenuta intorno agli inizi del XX secolo, quando si sarebbe attuato il ricorso alla ‘cultura commerciale’, per dare forma ad una certa memoria storica e rendere palese l’identità del movimento religioso. Si tratta di due saggi riguardanti l’architettura religiosa: quella adottata dai protestanti della California (Roberto Lint Sagarena), nella ricostruzione della città di Santa Barbara, distrutta dal terremoto nei primi del Novecento, e quella dei templi della Christian Science (Paul E. Ivey), costruiti nello stesso periodo. Il terzo saggio (Paul Kemeny) analizza, invece, il fallimento dei protestanti che, a Boston, si erano prefissati (1920) di poter controllare la nuova cultura commerciale, facendo appello a mezzi di carattere religioso.

Gli ultimi quattro saggi, di Judith Weisenfeld, Kathryn Jay, Melani McAlister e Etan Diamond, analizzano piuttosto i processi di adattamento, avvenuti nel dopoguerra (1940-1970), da parte di alcune minoranze, quali: gli afro-americani, i cattolici, gli islamici di colore e gli ebrei ortodossi. Sono studi che intendono disquisire sui processi di adattamento, verificatisi nella vita spirituale e nei costumi circa l’abbigliamento e l’alimentazione, la musica, le arti, la letteratura, agli standard della cosiddetta cultura urbana.

L’opera, per ammissione dei suoi curatori, non si presenta in termini esaustivi, quanto piuttosto come una provocazione, un incentivo a proseguire con ulteriori indagini sul rapporto tra ‘cultura commerciale’ e dimensione religiosa, specie per quanto riguarda l’ambito della vita urbana statunitense negli anni successivi al 1880. Manca, a nostro avviso, una chiara definizione di cosa si intenda per ‘cultura commerciale’. A livello sociologico, è noto l’uso di parametri presi a prestito dalle scienze economiche, per analizzare alcuni fenomeni di carattere sociale e religioso. Di tali elaborazioni non pare qui si sia tenuto conto.

Alquanto interessante è parsa, invece, l’idea di una ‘cultura commerciale’ - con cui la religione dovrebbe rapportarsi, e nella quale, anzi, la stessa religione, per sussistere, dovrebbe trovare il modo di vendere i propri prodotti - così come è stata elaborata dal R. Lawrece Moore, Selling God: American Religion in the Marketplace of Culture, New York 1994). Gi autori dei vari articoli, seguendo l’ispirazione del Moore, hanno rintracciato con successo ed esposto felicemente diversi casi di alleanza tra religione e ‘cultura commerciale’. Di tali fenomeni, poi, hanno analizzato in parte anche gli effetti ottenuti in contesti di urbanizzazione. In merito alla realtà religiosa, però, o meglio all’organismo demandato a farsi carico dei processi di elaborazione della medesima, nell’ambito di una ‘cultura commerciale’, ci sembra restino aperti alcuni quesiti: quali furono gli effetti a livello istituzionale? Quali, ad esempio, le ripercussioni sul permanere della istituzione (cambiamenti a livello di gerarchie sociali, a livello normativo, dinamiche conflittuali)? Quali le trasformazioni a livello di identità religiosa (credo, mentalità, e loro rappresentazioni)? In ultima analisi: qual è il prezzo che deve essere disposta a pagare la ‘religione’ per rendersi appetibile nel mercato?


 
 
 
 
 
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