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Rivista Antonianum
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Foto Nobile Marco , Recensione: DAVID E. AUNE, La profezia nel primo cristianesimo e il mondo mediterraneo antico , in Antonianum, 72/4 (1997) p. 701-703 .

L'opera di D. Aune risale al 1983, con una ristampa del 1991, ma rimane la monografia più completa e più rigorosa sul tema della profezia del cristianesimo primitivo. Per la sua monumentalità e per l'acribia dell'analisi, lo studio può essere definito un classico del suo genere. La materia trattata è oltremodo vasta, nono­stante la delimitazione del tema, ma una disamina completa, quale vuol essere quel­la presente, non può fermarsi all'epoca neotestamentaria né alla sola letteratura bi­blica e neanche può limitarsi alle sole lande della precomprensione di natura teo­logica. L'A. tiene a sottolineare che la sua indagine è nuova sia per la quasi totale assenza di una trattazione completa sul tema della profezia protocristiana, sia per il fatto che opere che hanno tentato un qualche approccio all'argomento (l'A. ne esa­mina cinque all'inizio dello studio), spesso sono inficiate dalla pregiudiziale teolo­gica e mettono in secondo piano l'aspetto «oggettivo», che è quello storico e socia­le. Un'eccezione è la tesi dottorale di T.M. Crone, Early Christian Prophecy: A Study oflts Origin and Function (Baltimore 1973), il quale si offre come modello-base per una ricerca rigorosa in materia, che indaghi sullo sfondo socio-religioso del feno­meno della profezia e quindi sulla sua funzionalità nel quadro di una struttura «esterna». Tutto questo, FA. lo espone nel primo capitolo, che è anche quello della fondazione metodologica del suo studio. Difatti, egli, dopo questa disamina critica della letteratura precedente, passa a presentare il suo metodo. Questo deve fondar­si sulla conoscenza dell'ambiente storico-religioso nel quale si è sviluppata la feno­menologia profetica del cristianesimo primitivo. All'uopo serve un'indagine accura­ta, di tipo «formgeschichtlich» e antropologico-comparativo, non solo della tradi­zione veterotestamentaria e giudaica, la quale, pur valida, non esaurisce però il «Si-tz im Leben» di riferimento, ma anche di tutto il più ampio ambiente mediterraneo, e, più specificamente, di quello greco ed ellenistico-romano. Quest'ultimo aspetto

della ricerca rappresenta una qualità specifica positiva del lavoro dell'A., il quale affronta per primo in maniera sistematica un'impresa del genere.

Così, il secondo capitolo è dedicato allo studio del fenomeno della profezia nel mondo greco-romano. Si tratta di un esame lungo e accurato delle testimonian­ze storiche e letterarie attorno alla fenomenologia degli oracoli nel mondo classico. Le somiglianze con la casistica biblica e protocristiana sono sorprendenti, soprat­tutto là dove si passa dal fenomeno storico dell'indovino ispirato, perlopiù su ri­chiesta di terzi, a quello dell'interpretazione ispirata degli antichi oracoli conservati in raccolta (chresmologoi). L'analisi dell'A. è puntuale e spazia dalla differenziazio­ne dei ruoli o figure oracolari alla diversificazione di testimonianze oracolari, con­siderate nella loro forma espressiva. Lo studio si prolunga in un terzo capitolo che approfondisce l'aspetto funzionale dell'attività oracolare greco-romana.

Un lavoro altrettanto meticoloso è fatto nel quarto capitolo, là dove s'indaga sulla profezia nell'Israele antico, in pratica l'AT, anche se la scelta dei termini da parte dell'A sottolinea la sua inclinazione storica.

Questo si ricava almeno da alcuni testi biblici ed extrabiblici. La realtà sarebbe stata invece molto più complessa e lo spirito di profezia non sarebbe venuto mai meno, come dimostra lo sviluppo rigoglioso del carismatismo di tipo profetico che sfocia nel movimentismo apocalittico e nella corrispondente letteratura. Questa posizione dell'A. si può condividere, anche se la convinzione che la profezia antica si fosse esaurita, va presa sul serio e va interpretata alla luce dell'evoluzione storico-sociale e religiosa del giudaismo, per cui, quello spirito di profezia in esso perpetuato fino all'epoca di Gesù, in realtà non era propriamente, e non doveva essere la stessa co­sa che erano le antiche profezie, come attesta Giuseppe Flavio. Potevano essere qualcosa di meno, forse di più (vedi la letteratura qumranica e quella neotestamen­taria), ma non dovevano essere la stessa cosa. Importante è anche il rapporto che l'A. vede tra la nascita della letteratura apocalittica e il mondo dei sapienti o degli scribi. A pag. 230 è da correggere la grossa svista: «Il titolo di "unto di Jahvé" è ap­plicato al profeta-sacerdote Samuele» (1 Sam 24,6.10). Il personaggio è Saul e il versetto non è 10, ma 11; inoltre, è da correggere anche la citazione seguente: non 2 Sam 19,21, bensì 19,22.

La ricerca si sposta, quindi, nei capitoli seguenti, su Gesù e sul profetismo nel protocristianesimo. Ai ce. 6-9, s'indaga in tutte le espressioni letterarie neotesta­mentarie e non, per sceverare eventuali detti autentici di Gesù di tipo profetico e rimaneggiamenti altrettanto profetici della comunità delle origini, per bocca di pro­feti legittimati a parlare in nome del Cristo risorto. Il metodo è quello già su dichia­rato. L'A. dispiega la sua analisi con equilibrio e prudenza, anche se spesso è pro­penso ad accettare l'autenticità gesuana di molti detti. Nei ce. 10 e 11, l'A. ricostrui­sce le forme della profezia protocristiana, sottoponendo a stringente analisi siste­matica tutta una serie di passi del NT, dai vangeli agli Atti, dalle lettere paoline al­l'Apocalisse, da Ignazio di Antiochia al Pastore di Erma, l'unica opera apocalittica cristiana dopo l'Apocalisse, e alla Didaché. La sua indagine si spinge fino all'esame del montanismo, il fenomeno più tardivo di profezia cristiana.

Le conclusioni di questo ingente lavoro sono esposte in modo rapido nel e. 12. Nel profetismo del protocristianesimo, nel quale è interessante scoprire evocazione di profezie veterotestamentarie, ma anche l'influenza o perlomeno la consonanza col mondo oracolare greco-romano, si può identificare una tipologia di sei forme di base e tre forme complesse di profezia. Lo studio attento degli elementi stilistici e formali può di volta in volta rendere conto della presenza di un detto profetico cri­stiano primitivo. Per quanto riguarda lo sfondo socio-culturale e storico, la conclu­sione più sorprendente e stimolante che l'A. ci dà, è quella circa la funzione di rac­cordo che i profeti cristiani hanno incarnato dopo la morte e la risurrezione di Ge­sù, tra le varie comunità cristiane e anche all'interno di esse, espletando contempo­raneamente mansioni apostoliche di capi carismatici (vedi Paolo) secondo uno schema di mobilità ininterrotta, e di consolidatori di fede, specie attraverso la rive­lazione o interpretazione di contenuti di verità. La loro funzione ha cominciato ad esaurirsi, quando è venuta a formarsi una struttura istituzionale più compatta e più sedentaria: nasceva la tipologia tripartita di vescovi, presbiteri e diaconi.

Queste poche righe non rendono giustizia a quello che abbiamo definito e tor­niamo a definire uno studio classico, con il quale gli studiosi dovranno ancora a lun­go confrontarsi, sia pure per completarlo o aggiornarlo.

Il contenuto di questo capitolo non offre niente di nuovo, in quanto viene ri­proposto in maniera esauriente tutto quel che è stato raggiunto dall'esegesi vetero­testamentaria storico-critica passata, specialmente nello studio battistrada di C. Westermann, Grundformen profetischer Rede (Miinchen 1964). Pur non essendo questo soltanto il testo alla base delle ricerche dell'A, tanto più che esso si muove soprattutto nel campo concluso della letteratura profetica, tuttavia, il suo modo mi­nuzioso di procedere nell'analisi, ricorda soprattutto l'opera dell'esegeta tedesco. Tale procedimento metodologico, seguito fino alla fine del libro, ne costituisce la peculiarità più stimolante e più ricca, ma anche l'aspetto più rischioso. Esso, infatti, nell'acribia dell'analisi puntuale e testarda dei minimi elementi di una forma lette­raria (la nostra osservazione vale anche per i capitoli seguenti), rischia talora quel pericolo insito in tale metodologia: la ricerca al microscopio delle forme «oggetti­ve», rispondenti ad un «Sitz im Leben» storico ben determinato, potrebbe cadere in una specie di automatismo metodologico e di positivismo che lascia perplessi. Per fortuna, FA. sembra essere consapevole di questo e la sua maestria, unita all'onestà intellettuale, lo salvano dalle facili dichiarazioni conclusive di tipo assertivo, così che anche questo pericolo viene tenuto nel possibile al guinzaglio, dando anche per tale motivo a tutto il libro la sostenutezza di uno studio solido. D'altra parte, non bisogna dimenticare che l'opera dell'A. è leggermente datata. Quando egli riporta bibliografia per lui recente, si tratta di opere tutt'al più degli anni settanta.

Molto più interessante e stimolante per il prosieguo del discorso, è il capitolo sulla profezia nel primo giudaismo, ove viene ben calibrata la relazione tra l'am­biente storico-religioso e le testimonianze letterarie e si ha un'eccellente ricostru­zione della fisionomia dell'epoca «apocalittica». Anche qui, però, FA. pecca talora di un po' di schematismo, come quando distingue nel movimentismo apocalittico una parte, quella che scrive apocalissi, che rappresenta gli oppressi della Palestina che non sono riusciti a organizzarsi, e una parte che invece ha raggiunto una certa organizzazione e che definisce gruppi millenaristi (tra questi sarebbe da computare il gruppo di Giovanni Battista e quello di Gesù). Questa etichetta ulteriore ci ap­pare un po' gratuita e superflua. Ad ogni modo, tutta questa sezione del libro si leg­ge con estremo interesse. Importante è la posizione che FA. esprime circa la comu­ne opinione di quel tempo e dei secoli successivi, fino ad oggi, che la profezia fosse relegata ai secoli passati, quelli dei profeti biblici e che con essi si fosse estinta.


 
 
 
 
 
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