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Rivista Antonianum
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Foto Faggioni Maurizio , Recensione: R.J. White, H. Angstwurm, I. Carrasco de Paula eds., Working Group on The Determination of Brain Death and Its Relationship to Human Death. 10-14 december 1989 , in Antonianum, 70/1 (1995) p. 125-127 .

Il momento della morte segna una drammatica dissoluzione, una rottura nel­l'unità della persona e, pur non essendo direttamente percepibile, se ne possono cogliere gli effetti e i segni.

In base alle vedute della scienza odierna, la morte dell'individuo può essere descritta come la perdita totale e irreversibile della capacità dell'organismo di man­tenere autonomamente la propria unità funzionale fisica e psichica. Per un organi­smo complesso, la condizione di vita o di morte dipende quindi dalla integrità mor-fo-funzionale dell'organo cui è devoluto il mantenimento dello specifico livello or­ganizzativo: nell'uomo quest'organo è l'encefalo.

Un uomo è morto quando si sia avuta la necrosi di tutte le sue strutture en­cefaliche indipendentemente dalla sopravvivenza di gruppi di cellule, di tessuti, di organi interi. Addirittura, grazie alle tecniche di rianimazione, può verificarsi una singolare situazione per cui organi come cuore, polmoni e reni, di pazienti deceduti per lesioni neurologiche globali e irreversibili, continuano per qualche tempo a fun­zionare: essi sono così utilizzabili per il trapianto, ma l'espianto avviene mentre il cuore continua spontaneamente a battere. Questo quadro conturbante, descritto nel 1959 da P. Mollaret e M. Goulon che lo chiamarono coma dépassé, viene oggi denominato brain death, morte cerebrale o meglio morte encefalica (il cervello è solo una parte, benché la più nobile, dell'encefalo).

Nonostante l'esteso dibattito fra gli esperti delle scienze mediche e antropolo­giche, manca ancora una definizione universalmente accettata di morte cerebrale così come restano confusi e talora contraddittori i diversi criteri proposti, anche a livello legislativo, per accertarla. A questo tema delicatissimo è dedicato il volume che presentiamo, nel quale sono raccolti gli interventi dei partecipanti ad un Grup­po di lavoro organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze in collaborazione con la Congregazione per la Dottrina della fede, nel dicembre 1989.

Nella conferenza introduttiva John C. Eccles, premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina nel 1963, ha riproposto la nota e discussa teoria neuro-filosofica elabo­rata da lui e da Popper per spiegare il rapporto cervello-mente (brain-mind). Anche chi non voglia accettare il dualismo neo-cartesiano della complessa rappresentazio­ne popperiana, deve convenire che il nodo teoretico della morte cerebrale sta esat­tamente nella questione qui evidenziata da Eccles, se cioè la realtà ultima della per­sona sia riducibile ad alcune sue funzioni encefaliche e se quindi il venir meno di tali funzioni possa davvero costituire l'essenza della morte personale.

Gli illustri relatori hanno raccolto la sfida con larghezza di dottrina e varietà di approcci: la morte umana non è infatti un problema soltanto clinico, ma coinvolge tutta una concezione dell'uomo, la dignità della persona, il senso e il valore della sua dimensione corporea e della sua esistenza fisica, come si evince dal titolo stesso del Gruppo di lavoro, // rapporto della morte cerebrale con la morte umana.

Nella prima parte del libro sono raccolti i contributi di carattere scientifico, ma con inevitabili sconfinamenti di carattere squisitamente filosofico, offerti da al­cuni dei maggiori esperti nel campo delle scienze neurologiche, frai quali spiccano H. Angstwurm, A. Shewmon, R. J. White.

A conclusione del Gruppo di lavoro, gli scienziati presenti hanno formulato al­cune Considerazioni finali concernenti la definizione di morte ed i criteri per accer­tarla. In particolare si deve ritenere « morta una persona nella quale si riscontri una perdita totale ed irreversibile di tutte le capacità di integrare e coordinare le fun­zioni fisiche e mentali del corpo come un tutto » (pag. 81), per cui lo stato mortale è diagnosticato o indirettamente constatando la cessazione irreversibile delle funzio­ni cardio-respiratorie spontanee con conseguente rapida, totale e irrreversibile per­dita delle funzioni cerebrali, o direttamente constatando la cessazione irreversibile delle funzioni cerebrali, anche nel caso che le funzioni cardio-respiratorie siano sta­te mantenute artificialmente. Non si tratta dunque di due modi di morire, ma di due modalità di accertare lo stato di morte, che si identifica sempre con lo stabilirsi di una perdita totale e irreversibile di ogni funzione encefalica.

La seconda parte del volume raccoglie gli interventi sugli aspetti giuridici, fi­losofici e teologici la cui sintesi, frutto sia delle relazioni sia delle discussioni, è data nel Foreword o Avvertenza (pagg. XIV-XV).

Un gruppo di relazioni, non ostili alla nozione medica di morte cerebrale, ri­propone i punti essenziali della Scrittura e della Tradizione cattolica attinenti al te­ma: si tratta delle relazioni di padre Daniel Ols e di padre J.-M. Maldamé, dell'Or­dine dei Predicatori, e del gesuita padre John M. McDermott, teologo dogmatico della Pontificia Università Gregoriana.

Comprendere la complessità della morte umana, richiede una antropologia che sappia tener conto della pluridimensionalità dell'esistenza personale. Le antro­pologie implicite nella maggior parte delle discussioni possono ricondursi a due modelli fondamentali, quello dell'uomo come totalità unificata, un aggregato di par­ti legate da un principio unificante chiamato anima, per cui la morte è vista come una disorganizzazione che si rivela attraverso la fine del funzionamento di una par­te essenziale del sistema biologico, oppure il modello dell'uomo come unità totaliz­zante, in cui il primato è attribuito all'unità della forma sostanziale e nel quale la morte è concepita come separazione del principio vitale dal corpo. « La definizio­ne, sviluppata da san Tommaso d'Aquino dell'anima come forma del corpo - affer­ma padre Maldamé - unifica le due prospettive » (pag. 183).

Ma proprio la tesi tomista dell'anima umana come unica forma corporis, san­cita dogmaticamente dal concilio di Vienne, e l'idea che l'anima razionale sia anche l'unico principio vitale dell'uomo rendono difficilmente intelleggibile il concetto di morte cerebrale: fintanto che il corpo vive anche solo di una vita sensitiva o addi­rittura soltanto di un barlume di vita vegetativa, si deve ritenere che l'anima spiri­tuale sia presente e quindi la persona sia viva.

Padre Ols tenta una soluzione all'interno dello stesso sistema aristotelico-to-mista: come nello sviluppo embrionale Tommaso, ispirandosi alla biologia aristotelica, ammette una successione di anime, prima vegetativa, poi sensitiva e infine ra­zionale e solo l'anima razionale costituisce la persona umana in tutta la sua densità ontologica, parimenti si può pensare che al distacco dell'anima razionale, che è il momento della morte umana, subentrino forme inferiori, quale può essere l'anima vegetativa. « Il paziente giunto a questo stadio non avrebbe più diritto strìcto sensu, di conseguenza, al nome di uomo e si può dunque pensare che si sia autorizzati a ucciderlo o mutilarlo » (pag. 150). Lasciando agli interpreti del pensiero tomista di giudicare sulla plausibilità dell'argomento che, a nostro avviso, ben più converrebbe a una antropologia che ammettesse pluralità di forme, sia permesso chiedersi sub-missa voce, quale possa essere l'impatto di ragionamenti di questo genere nel dia­logo culturale contemporaneo.

Canta extra chorum Josef Seifert, rettore e professore di filosofia nell'Accade­mia Internazionale di Filosofia del Liechtenstein, nel complesso e documentato in­tervento dal significativo titolo La morte cerebrale è davvero morte?. Impressiona la massa di argomentazioni biologiche e filosofiche con cui si cerca di dimostrare l'ambiguità e addirittura l'assurdità della morte cerebrale che verrebbe a creare un inaccettabile dualismo antropologico fra vita biologica e vita personale. In alterna­tiva si propone « la vita umana biologica come unico criterio accettabile per la vita umana personale » (pag. 135): secondo questo criterio si ha morte « quando ha avuto luogo una cessazione completa e irreversibile di tutti i segni vitali centrali (in­clusa l'attività cardiorespiratoria e l'infarto cerebrale totale) » (pag. 134).

Con toni più pacati, anche il noto moralista italiano Lino Ciccone esprime qualche perplessità sulla nozione di morte cerebrale rilevandone l'indeterminatezza semantica e chiedendosi « se la morte cerebrale, correttamente intesa come la to­tale e irreversibile cessazione di tutte le funzioni encefaliche, sia sufficiente a sta­bilire che ha avuto luogo la morte di un organismo umano e perciò della persona » (pagg. 193-194). Molto illuminante, a questo proposito, la distinzione proposta da mons. I. Carrasco de Paula, professore di teologia morale e bioetica e consultore di organismi pontifici, fra la morte cerebrale intesa come una nuova definizione, più scientifica e vera, della morte umana e la morte cerebrale come nuova metodica per verificare lo stato di morte. Nel primo caso si deduce, a partire dalla considerazione del ruolo centrale dell'encefalo nell'organismo vivente, la definizione che la morte di una persona consiste nella morte del suo encefalo, deduzione che appare piut­tosto discutibile sul piano filosofico. Nel secondo caso la cessazione dell'attività del­l'organismo come un tutto viene segnalata da vari segni di cui quelli di natura neu­rologica sembrano i primi ad apparire: questa impostazione induttiva non impone all'etica il problema di accettare una definizione di forte e controverso valore an­tropologico, ma soltanto di valutare l'affidabilità e il grado di certezza della nuova metodica biomedica.

Con l'equilibrata relazione di mons. Carrasco si chiude un volume davvero prezioso e del quale speriamo di aver fatto intuire l'importanza: questi Atti per la vasta coralità degli apporti, l'autorevolezza degli interventi, l'onestà del dialogo ri­sultano raccomandabili per quanti vogliano essere informati del dibattito in corso sulla morte cerebrale, le sue molteplici implicazioni antropologiche, le certezze ac­quisite così come i lati più oscuri e inquietanti.


 
 
 
 
 
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