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Rivista Antonianum
Informazione sulla pubblicazione

 
 
 
 
Foto Nobile Marco , Recensione: MARIO LIVERANI (a cura), Le lettere di el-Amarna. 1 – Le lettere dei «Piccoli Re» , in Antonianum, 75/1 (2000) p. 161-162 .

L’opera in due volumi curata dal Liverani è un altro fiore all’occhiello della prestigiosa collana divulgativa diretta da Paolo Sacchi. Abbiamo già avuto modo di recensire altri volumi di questa benemerita iniziativa editoriale che mette finalmente a disposizione del pubblico italiano i testi più importanti dell’antico mondo vicino-orientale, finora accessibile solo in altre lingue.

La presenta opera, affidata alla cura magistrale dell’orientalista M. Liverani, riguarda testi di capitale importanza, cioè il lotto di lettere diplomatiche ritrovate nel sito egiziano di Tell el-Amarna (Banu ‘Amran) nel lontano 1887. Esse, nel numero di quaranta, attestano i rapporti intercorsi tra il faraone “eretico” Ekhnaton (Amenophi IV) (ca. 1353-1336) da un lato con i re asiatici indipendenti (Hatti, Arzawa, Mitanni, Assiria, Babilonia, Alashiya-Cipro), materiale del secondo volume, e dall’altro con i re vassalli del territorio siro-palestinese (i «Piccoli Re»), argomento del primo volume.

I testi sono importanti sia per la conoscenza della storia dell’antico Vicino Oriente sia, più in particolare, per gli studi biblici, perché sono testimonianze di prima mano della configurazione della società internazionale della seconda metà del II millennio a.C.  e della fisionomia delle varie città-stato che costellavano la Siria e la Palestina, in tensione o in lotta tra di loro e in rapporto altalenante con l’autorità centrale egiziana, ora con lamenti ora con suppliche o con rimbrotti. Certo, stando alla cronologia tradizionale, i fatti dell’Esodo degl’Israeliti sarebbero avvenuti circa un secolo dopo, quindi le lettere non possono essere adoperate in questo senso; tuttavia, gettano un fascio di luce su quel periodo oscuro che l’Israele successivo ha coperto con saghe tribali. Tra l’altro le lettere testimoniano la presenza di quella categoria sociale che spesso è stata messa in relazione con le origini degli ebrei: i habiru.

Notevole è l’introduzione che il Liverani offre in tutt’e due i volumi (62 pagine nel primo e 27 nel secondo), necessaria per la comprensione dei testi. Non basta, infatti, che questi siano tradotti; essi vanno interpretati anche e soprattutto sullo sfondo di una criteriologia linguistica e semantica, grazie alla quale, pur nell’uso comune del babilonese come lingua diplomatica ufficiale, è dato di registrare gli scivolamenti semantici o deformazioni di senso volute, attestanti comunque la varietà degl’idioletti d’origine degl’interlocutori ed anche delle rispettive ideologie (più democratiche quelle dei vassalli, più centralista quella egiziana). È anche grazie a questo tipo di criterio che è possibile sfatare la comune opinione passata circa una crisi che l’Egitto avrebbe attraversato in quel periodo così turbolento, come attestato apparentemente dalle lettere. In realtà, la grande potenza egiziana, tranquilla nella sua egemonia, lasciava cuocere i reucci litigiosi nel loro brodo; diverso era il discorso con le grandi potenze indipendenti con le quali il faraone intratteneva rapporti di parità espessi dalla terminologia parentale.

Riguardo ai testi, il Liverani fa precedere la traduzione delle singole lettere da un “cappello” esplicativo e da un apparato bibliografico utile in uno studio scientifico e accompagna il testo con note nelle quali vengono discussi problemi specifici. L’ordine seguito nella presentazione delle lettere è quello geografico di tipo egittocentrico che va dal sud al nord.

Una serie di indici e apparati contribuisce a fare di quest’opera un traguardo felice e stimolante nell’editoria orientalistica italiana di alto livello.

 


 
 
 
 
 
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