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Rivista Antonianum
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Foto Sella Pacifico , Recensione: J. DALARUN, Francesco d’Assisi: Il potere in questione e la questione del potere. Rifiuto del potere e forme di governo nell’Ordine dei frati Minori, in Antonianum, 75/1 (2000) p. 179-181 .

Introdotto da un’ampia prefazione di Giovanni Grado Merlo – che a nostro avviso sarebbe stata più indicata come postfazione –, il saggio di Dalarun delinea l’evolversi del potere istituzionale dell’Ordine dei Frati Minori dalle sue origini fino al tempo della sua perfetta regolarizzazione, avutasi con il varo delle Costituzioni di Narbona. L’A. ha svolto questo studio rileggendo «alcune fonti francescane primitive, dalle origini sino a circa il 1260, alla luce di questa domanda sul potere» (16). Egli, pertanto, ha diviso la sua esposizione in due capitoli. Nel primo, «Dal rifiuto del potere ai principi di un governo» (21-49), traccia le caratteristiche di fondo della fraternità di Francesco e del suo passaggio a Ordine dei frati Minori. Passaggio che, stando all’A., si definisce nella sua completezza nell’anno 1220 (26). All’interno di quest’ambito, egli evidenzia l’atteggiamento di rifiuto del potere da parte di Francesco d’Assisi, il quale, nonostante tutto, «si accompagna però con una accettazione dell’istituzione» (30), dotata «dello status di Ordine riconosciuto» (32). Chiude il capitolo un excursus storico e giuridico su «I principi di governo» (37-49) desunti dagli scritti di Francesco e in parte colti nello sfondo storico coevo, al fine di poterne meglio comprendere la portata e l’originalità. Il secondo capitolo tratta de «Le modalità di governo nell’Ordine dei frati Minori» (51-130). L’A., al fine di sottolineare dette “modalità”, richiama l’attenzione sulla fonte del potere e sulla ripartizione di essa all’interno dell’Ordine. A tal proposito, egli ripercorre «gli scritti dell’Assisiate, i testi delle leggende, delle cronache dell’Ordine e, infine, della legislazione prodotta dopo la morte del fondatore» (51) secondo due piste d’indagine: i ministri e i capitoli e, naturalmente, i rapporti tra queste due figure giuridiche. Segue la «Conclusione» (131-49), a cui succedono l’abbondante bibliografia (153-62) e l’indice analitico dei nomi di persona e di luogo (163-8).

La tesi conclusiva di questa rilettura di Dalarun è, in sintesi, la seguente: l’istituzionalizzazione dell’Ordine minoritico, sfociata in un primo tempo nella crisi del 1239 e definita nella sua completezza con l’approvazione delle costituzioni al Capitolo generale di Narbona nel 1260, è nata dall’esigenza dei frati di rimediare al vuoto giuridico che la Regola del 1223, a causa delle sue ambiguità (64) o aporie (133), non poteva colmare. In tal senso l’A. addebita a Francesco una «negligenza originaria», che «ha avuto come effetto di invitare i suoi frati e successori a uno sforzo di insolita riflessione e di aprire al loro dibattito di idee un innegabile spazio di libertà» (148s). Bisogna proprio dirlo: Dalarun giunge a salvare l’istituzione dell’Ordine dei frati Minori, riconoscendola come effetto salutare dell’intuizione di Francesco. Praticamente la tesi di Dalarun si scontra con quella sostenuta dalla stragrande maggioranza degli storici del francescanesimo, specialmente italiani. In effetti, il giudizio di fondo che da sempre serpeggia presso quest’ultimi è retaggio della lettura sabateriana del fenomeno francescano: l’intuizione di quel “pazzo giullare” che fu il “rivoluzionario” Francesco d’Assisi, concretizzatasi con la fondazione di una fraternità povera sarebbe stata strumentalizzata e pilotata, in maniera più o meno coatta, dalla gerarchia ecclesiastica, tanto da giungere alla sua trasformazione in un Ordine perfettamente integrato, tutto ligio e devoto alla Chiesa ricca e potente e, pertanto, in contraddizione con l’ispirazione originale del fondatore. Ora la rilettura di Dalarun smentisce questa interpretazione e lo fa, fonti alla mano, indicando Francesco stesso quale regista – suo malgrado – dell’incipiente istituzionalizzazione della sua fraternità (136). In altre parole, Dalarun ci presenta un Francesco che, con il suo piccolo gruppo di frati e di propria iniziativa, giunge sino alla curia pontificia, «che è pronto a estendere la sua impresa sino in Francia, che decreta la conquista della Germania, che reclama un protettore di rango cardinalizio, che trascorre il meglio della sua vita religiosa a concepire un testo normativo, accettando che per due volte la sua persona diventi il perno intorno a cui ruotano la sottomissione e la dipendenza di migliaia di frati nei confronti del papa» (133; si veda anche p. 75). In quest’ottica, Francesco è l’autore della storia del suo Ordine, e non la sua vittima. Egli non ha paura di opporsi ed imporsi al cardinale protettore e ai vicari Gregorio da Napoli e Matteo da Narni, quando questi nel 1220 tentano di introdurre normative ispirate al mondo monastico. Francesco sa anche ricorrere al linguaggio del “folle” e alle dimissioni per far tacere gli oppositori, e così rimanere il capo indiscusso dell’Ordine (40-2). Insomma, Francesco «non è un burattino» (135)! Non è l’illustre e innocente martire di una situazione che, come hanno voluto farci credere i filosabateriani, l’aveva totalmente superato. Di conseguenza, a essere riscattati sono i frati dei primi decenni della storia dell’Ordine che, mai come nel nostro secolo, sono stati accusati di aver deviato e mortificato il carisma del fondatore. In effetti, ciò che traspare dallo studio di Dalarun è che solo mediante l’opera di questi frati si poté giungere al varo di costituzioni – prima quelle del 1239 e poi quelle di Narbona del 1260 – che dessero delle direttive chiare di governo ad un Ordine che, costituito da una massa innumerevole di membri, rischiava di degenerare. Era questo l’unico modo per garantire nel tempo l’originale intuizione del fondatore. Anche la Chiesa viene ad essere riscattata, poiché essa voleva sì l’introduzione di norme precise che regolassero la vita dei frati, ma non per pilotare e strumentalizzare il movimento che stava sviluppandosi, bensì per garantire ai suoi componenti una maggiore “democrazia”. Di fatto il concilio Lateranense IV del 1215, con i canoni 23, 24, 25 e 26 (riguardanti le elezioni degli abati) e con il canone 12 (di ispirazione cistercense e che regolamentava il funzionamento triennale dei capitoli generali o provinciali), si poneva «quale punto di riferimento e […] crogiolo di ogni riflessione sulle procedure di base per il funzionamento istituzionale della Chiesa» (53). Il fatto che nel 1239 si originasse all’interno dell’Ordine una fortissima crisi che portò alla destituzione del ministro generale frate Elia, accusato di assolutismo illimitato nell’esercizio del suo mandato (83), fu conseguenza dell’iniziale noncuranza istituzionale (86).

Al lavoro di Dalarun si possono muovere alcuni rilievi critici. Il recupero positivo del processo di trasformazione della fraternità francescana in Ordine, si traduce nell’ottica dell’A. in un’arbitraria dequalificazione del suo fondatore. Questo si nota, innanzitutto, nei giudizi che Dalarun esprime su Francesco, tacciato di essere un «insoddisfatto in cui si nasconde un megalomane» (33), un ingenuo presuntuoso che vuole per la sua fraternità la conferma del papa in persona (34), e che ricorre al linguaggio della follia paolina – novellus pazzus in mundo – (42) al fine di imporre i suoi diktat, poiché «incapace di dialogare con i suoi frati, di accettare punti di vista diversi dal suo, che ricorre, volta per volta, alla minaccia o al ricatto affettivo» (132). È vero che lo stesso A. spiega che tali sue espressioni nei riguardi di Francesco non devono essere prese alla lettera: sono «giudizi evidentemente eccessivi», che devono essere intesi come provocazioni utili «solo quando la rigidità delle immagini tramandate si trasforma in reale ostacolo alla riflessione, anzi alla ricerca storica» (132). Ma, ci chiediamo, era proprio necessario ricorrere a simile linguaggio solo per “provocare”? Si poteva puntualizzare il nocciolo della questione senza, per altro, scivolare in queste valutazioni superflue ed anacronistiche. Ci sembra che qui l’A. abbia esagerato, tanto da sfiorare l’irriverenza senza scrupoli. Per il resto approviamo il suo intento di voler, nel suo complesso, smontare l’appiccicosa oleografia che, come dice Merlo, «il Francesco storico continua ininterrottamente a subire» (7) – e aggiungiamo noi – sia da sinistra (i filosabateriani) sia da destra (i sostenitori di una santità mitizzata e disumanata dell’Assisiate).

 


 
 
 
 
 
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