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Recensione: GREGORIO DI NISSA, Paradiso precoce

 
 
 
Foto Cacciotti Alvaro , Recensione: GREGORIO DI NISSA, Paradiso precoce, in Antonianum, 80/1 (2005) p. 176-178 .

Il volume che presentiamo giunge quanto mai gradito ed utile per il momento di intensa riflessione teologica sul tema dei bambini morti senza battesimo e sul loro destino eterno. Riflessione che vedrà impegnata per circa un triennio la Commissione teologica internazionale ricevuta il 7 ottobre scorso dal santo Padre e da lui esortata ad approfondire la sopramenzionata quaestio, soprattutto con l’ausilio della teologia dogmatica e delle scienze bibliche, ivi compreso il non trascurabile apporto degli studi patristici.

Intendiamo riferirci in particolare al contributo di G. Maturi che ha curato la prima traduzione italiana integrale, condotta sul testo critico di Leiden – preceduta da un’ampia introduzione di circa cento pagine e da un altrettanto approfondito commento – dello scritto di Gregorio di Nissa dal titolo De infantibus praemature abreptis.

Il maggior merito del lavoro del Maturi è stato di aver fatto luce su un testo finora poco noto nel panorama della letteratura cristiana antica in lingua greca e perfino ignorato da alcune autorevoli patrologie, costituendo non soltanto un contributo agli studi specialistici sul Nisseno – e quindi un ampliamento dei dati sulla speculazione protologica ed escatologica del Padre Cappadoce finora acquisiti da una ricerca comunque ancora molto limitata in ambito italiano – ma anche, più in generale, un necessario complemento a quelli di antropologia patristica.

L’Opera è datata dal Maturi al 381 (vedi le osservazioni avanzate alle pp. 11-30) attraverso una serie di tópoi retorici ed argomentazioni dottrinali che ci riportano al periodo della polemica con l’ariano Eunomio e sarebbe stata verosimilmente composta a Costantinopoli durante lo svolgimento del Concilio ecumenico, dato questo rafforzato per lo studioso dalla presenza del Nazianzeno, presidente dei lavori dell’assise conciliare alla morte di Melezio di Antiochia e, soprattutto, autore di un’orazione dal titolo De baptismo infantium dove il problema del destino eterno dei bimbi trova una soluzione ben diversa rispetto a quella offerta da Gregorio di Nissa (pp. 17; 78-79).

Infatti, se per il Nisseno il bambino morto prematuramente è esente da ogni peccato e come tale è posto in uno stato iniziale di beatitudine destinato a crescere, in Gregorio di Nazianzo si parla invece di “peccati commessi per ignoranza” e lo si colloca nella vita presente e nell’éschaton a metà tra virtù e vizio, beatitudine e punizione.

Nel sostenere la totale impeccantia del bambino, Gregorio di Nissa, come mostra il Maturi nella dettagliata ricostruzione delle fonti, oltre a richiamarsi a varie testimonianze stoiche (pp. 57-62) in cui si afferma che gli infanti non possono avere passioni perché non partecipano della ragione, attinge alla tradizione alessandrina sia giudaica (p. 61) (significativa è in tal senso la dottrina filoniana dell’uomo che non è peccatore fin dalla nascita ma lo diventa solo successivamente, espressa in Quis rerum divinarum haeres 294), sia cristiana (eloquenti sono varie espressioni di Clemente ricordate nello studio (pp. 75-77) come quella di Stromata III, 16 che “il bambino appena nato non può cadere sotto la maledizione di Adamo”, e Stromata IV, 12 secondo cui “è comune opinione che l’infante non abbia peccato”).

Viene inoltre richiamata l’attenzione su vari passi neotestamentari (I Cor. 3, 2; Mt. 18, 2-4; 19, 13-14; Mc. 10, 14-16; Lc. 18, 15-17) su cui il Nisseno poteva scritturisticamente fondare la sua dottrina dell’incapacità di scelta, e quindi di peccato, nel bambino non ancora giunto a completa maturazione (pp. 76-77).

L’importanza e l’utilizzo da parte di Gregorio di tali testimonianze è anzitutto collegata alla sua esegesi del racconto della “caduta” dei progenitori, ovvero del peccato originale, un’esegesi di cui il Maturi discute nella sezione “fonti patristiche” e che evidenzia come Gregorio, nel netto rifiuto della dottrina platonica della preesistenza delle anime, si confronti in primis con Origene e Didimo il Cieco (pp. 68-77) – che vi avevano fatto ricorso identificando l’incorporazione delle anime con l’avvenuto peccato – da loro dissentendo ed interpretando la “caduta” di Adamo ed Eva come una caduta metastorica, pensata nella mente di Dio che si colloca al di fuori del divenire e del tempo “come mostra il fatto che per il nostro autore l’uomo nasce nella storia come uomo dotato di un corpo e non solo come anima”. (p. 72).

L’opera offre notevoli spunti di riflessione anche in ambito di dottrina mistica soprattutto per talune espressioni inerenti il cammino esistenziale e gnoseologico dell’uomo chiamato all’unione con l’Essere e alla sua contemplazione, espressioni che rivelano, come è ben dimostrato dal Maturi nell’analisi delle fonti filosofiche, un background ed un sostrato tipicamente platonico (pp. 34-51): valga per tutti il richiamo al Timeo nell’affermazione che “la partecipazione di Dio …è un proprium hominis indipendente dalla durata cronologica dell’esistenza terrena che rimanda invece alla sua stessa costituzione psico-somatica”. (p. 38).

Ricchezza di dati documentari e solido impianto metodologico, uniti alla scorrevole traduzione italiana di un testo per nulla semplice sia per strutture grammaticali e sintattiche sia per contenuti speculativi, evidenziano tutta l’originalità di un lavoro capace di far rivivere nei lettori le suggestioni letterarie e filosofiche del grande Cappadoce, destando un interesse che va ben oltre l’ambito degli studi specificatamente patristici: in tal senso tanto il letterato, quanto il teologo, come il filosofo e l’antropologo potranno trovare tutti nell’Opera spunti di riflessione quanto mai stimolanti.