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Recensione: JAMES D.G. DUNN, The Theology of Paul the Apostle

 
 
 
Foto Nobile Marco , Recensione: JAMES D.G. DUNN, The Theology of Paul the Apostle, in Antonianum, 75/1 (2000) p. 159-161 .

L’opera del Dunn, mentre ne facciamo la recensione in questa rivista, ha già raggiunto una vasta diffusione (ne è uscita già anche la traduzione italiana). I motivi di tale fenomeno si spiegano con la notorietà dell’autore e con la peculiarità di questa sua notevole fatica. Essa è il frutto maturo di quarant’anni di frequentazione appassionata dell’Apostolo, come egli afferma nella prefazione; una lunga e profonda lettura dei testi paolini, tradotta in questo monumentale studio che tuttavia si legge con piacere, nonostante la sua mole, perché il D. ha saputo stemperare magistralmente il rigore di un’analisi acribica in una discorsività di ampio respiro teologico. È questo, a mio parere, che rende peculiare la sua opera.

Base di partenza della sua trattazione e nel contempo continuo modello di riferimento prioritario del suo discorso è la Lettera ai Romani. Il D. motiva la scelta con il fatto che tale scritto è la creazione più matura e più completa dell’apostolo Paolo (p. 25), un punto fermo necessario per impostare una “teologia” di Paolo, che coniughi adeguatamente l’aspetto sistematico con la fluidità storico-psicologica e sociale nella quale sono state scritte le lettere paoline non disputate. Difatti, com’egli dice, una teologia di Paolo “non può essere più che la somma della teologia di ciascuna lettera, e, nello stesso tempo, dev’essere qualcosa di più che tale somma” (pp. 16-17). Per ottenere ciò l’autore adopera il criterio ermeneutico del “dialogo” con l’Apostolo; in altri termini, egli non si limita a rilevare e ad analizzare asetticamente i temi teologici di Paolo, ma si lascia coinvolgere nel “pathos” paolino, in una fusione di orizzonti, diremmo, di gadameriana memoria.

Il risultato è appunto quel che abbiamo già enunciato: un trattato di ampio respiro, che anima e raccorda i dettagli tecnici in un contesto di natura discorsiva o “dialogica”.

Il D. attua il suo progetto in nove capitoli, dei quali il primo e l’ultimo sono rispettivamente il prologo e l’epilogo. Il secondo capitolo tratta due temi di fondo in relazione tra loro: Dio e il genere umano (si esaminano la concezione del Dio di Paolo e la sua antropologia).  Il terzo capitolo, seguendo l’ordine d’idee di Rm, dibatte il problema dell’umanità tutta intera sotto accusa e, quindi, i correlati temi del peccato, della morte e della legge. Il quarto capitolo ha come argomento il “Vangelo di Gesù Cristo” predicato da Paolo: una disamina vasta e dettagliata che situa da un lato il pensiero paolino nella tradizione e nel contesto socio-culturale e religioso del suo tempo, dall’altro ne specifica le caratteristiche originali, scaturite fondamentalmente dalla sua esperienza di Damasco e dalla sua “conversione”; tra l’altro, il D. è convinto che sia Paolo e non Marco l’”inventore” del vangelo come termine tecnico di predicazione (p. 168). Ci sembra invece piuttosto stirata l’affermazione circa la valorizzazione da parte di Paolo anche della vita terrena di Gesù, dato che, come l’autore del resto giustamente dice, il centro di gravità della teologia di Paolo è costituito dalla morte e resurrezione di Di Gesù. Circa la morte di Cristo, poi, il D. sottolinea la valenza sacrificale conferita dall’uso della terminologia cultuale veterotestamentaria (hilastērion), anche se ciò andrebbe interpretato in senso metaforico e non fattuale, quasi che Dio avesse avuto bisogno di sangue! (cf. p. 231). L’esaltazione a cui ha portato la resurrezione del Signore Gesù , pone a sua volta tra l’altro il problema se, a partire da testi come Fil 2,10-11, essa fosse intesa da Paolo come deificazione oppure come riconoscimento della divinità di Gesù: in altri termini, si tratta del problema delicato e complesso se e in che misura Paolo ritenesse Gesù già Dio (pp. 252-260). Il D. dà una soluzione fortemente elaborata ed equilibrata, ponendo l’accento sull’aspetto evolutivo del fenomeno. Certo, Paolo e con lui la tradizione cristiana primitiva hanno nutrito una grande venerazione per Gesù, fino a rasentare l’adorazione, ma questa forma di fede e di culto, specialmente nell’ebreo Paolo, difficilmente si potrebbe definire allo stato riflesso come un’identificazione di Gesù con Dio: l’unicità del Signore Gesù sarebbe per Paolo confermativa e distintiva dell’unicità di Dio; in altre parole, per Paolo, solo Dio, il Padre, rimarrebbe l’unico Dio. Bisogna convenire con il D. che allo stato delle testimonianze testuali e in forza dell’aspetto storico-genetico del problema, sarebbe arduo ritrovare nella mente del monoteista Paolo la sistemazione trinitaria posteriore, come sarebbe arduo, da un punto di vista esegeticamente corretto ritagliare esattamente quel che Paolo pensasse in proposito in quel momento storico. È certo, come afferma del resto il D. stesso, che comunque Paolo, ancor più della comunità primitiva, deve aver contribuito in modo sostanziale  ad un modo di pensare al Cristo che sarebbe poi sfociato in quel che sappiamo.

Il quinto capitolo è dedicato alla soteriologia, articolata nelle tre tematiche paoline di fondo: la giustificazione per la fede, per la quale la messa a punto del D. è davvero magistrale, perché toglie il tema dalle sacche di una pregiudiziale confessionale anacronistica (pp. 334-389), la partecipazione “in Cristo”, che rivela la mistica paolina, e il dono dello Spirito. Anche il sesto capitolo ha a che fare con la soteriologia, in relazione alla componente escatologica della salvezza e in rapporto ad un tema scottante: la salvezza d’Israele (vedi Rm 9-11). Anche in questa sezione troviamo una lucida trattazione che pone in risalto le attitudini autenticamente ecumeniche dell’autore. Egli difatti sa spiegare perché l’ebreo Paolo ritenesse ancora valida, perché irrevocabile, la chiamata d’Israele da parte di Dio (pp. 499-532). Egli aveva ridefinito il concetto d’Israele: Israele, il popolo eletto di Dio al quale lui apparteneva come ebreo, rimaneva sempre il primo e l’eletto, ma la sua nuova comprensione, di natura profetica, metteva da parte l’esserlo in forza delle “opere” o per sola nazionalità, e lasciava posto anche all’ingresso dei Gentili. Il D. rileva quel che di caduco vi è nella teoria di Paolo e quel che invece dovrebbe ancora essere rivalutato per abbattere i fraintendimenti e gli equivoci attorno alle sue parole, le quali sono state lette solo in chiave di scontro tra gli ebrei e i cristiani.

Gli ultimi due capitoli sono dedicati rispettivamente all’ecclesiologia e alla prassi cristiana.

Non si rende giustizia a tale opera con questa semplice panoramica, ricca di spunti che andrebbero trattati distintamente e discussi in maniera adeguata, ma la nostra disamina può bastare per far capire quanto valido sia il lavoro del D. sia dal punto di vista metodologico che da quello dei contenuti. Una pietra miliare degli studi paolini.