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Rivista Antonianum
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Foto Buffon Giuseppe , Recensione: Arturo ELBERTI, La liturgia delle ore in occidente. Storia e Teologia , in Antonianum, 74/1 (1999) p. 179-182 .

Leggendo il lavoro di P. Elberti si ha quasi l’impressione di percepire qualcosa che va bene oltre il titolo proposto dall’autore. Come tanti anelli di una lunga collana, la successione cronologica delle varie tappe della “storia della liturgia delle ore in occidente”, sembra accompagnare il lettore in  una specie di itinerario dell’uomo con Dio, da una forma corale, comunitaria, propria della liturgia cattedrale, ad una espressione individuale, frutto della diaspora per la causa evangelii.  Diversamente da l‘histore du sentimant religieux, alla Bremond, dove si attinge a fonti prodotte da una coscienza religiosa - tessere di  una  storia della contemplazione - l’autore offre qui una documentazione di carattere normativo, generata da un organismo istituzionale, una “persona pubblica”, e non più dall’interiorità privata, lasciando percepire la possibilità di una storia religiosa, o se si vuole della mentalità, diversa nel metodo ma molto simile negli esiti a quella proposta un tempo dal gesuita francese . Dopo aver esposto le origini bibliche delle preghiera, il pluralismo liturgico frutto dall’era patristica, la successiva diversificazione in liturgia presbiterale e monastica, l’apporto dei monaci nell’alto medioevo e dei medicanti nel basso, sembra quasi che l’A voglia riperdere fiato, prima di passare ad una tappa che viene fatta apparire come cruciale per il periodo successivo fino al Vaticano II.

In realtà fin dalla prefazione il P. Elberti aveva formulato quasi un avvertimento, anticipando una sorta di chiave di lettura: “uno sguardo del tutto particolare è stato dato al lavoro, a suo tempo respinto, del cardinale francescano Quiñones, che seppe raccogliere, nel XVI secolo, tutta l’eredità della tradizione ecclesiale inerente all’ufficio divino, e adattarla alle esigenze dei nuovi tempi”.  Il prelato spagnolo era stato scelto da Clemente VII per la  riforma del breviario, preferendolo al teatino Giampietro Caraffa, per la sua cultura umanistica, attinta ai fiorenti centri della penisola iberica - si ricordi la nascita della bibbia complutense e il rinnovamento degli studi apportato dall’università di Alcalà, grazie al Cisneros - e per la sua origine francescana. E’ lo storico del concilio di Trento Hubert Jedin ad affermarlo. I francescani in effetti avevano avuto un ruolo fondamentale nelle riforma e diffusione del breviario  della  Curia romana. Non tanto i breviari di S. Chiara e S. Fracesco e il manoscritto 649 della biblioteca comunale di Asissi - esemplari provenienti dalla diocesi umbra, legata a Roma da speciale vincolo -, ma le successive revisioni, specie quella di Aimone di Faversham, vennero esportate in tutta Europa, diffondendo non solo lo stile di preghiera della curia romana ma  la sua stessa dottrina ecclesiologia; l’ecclesia universalis di matrice bonifaciana, messa a tacere in centro Europa dall’apparato carolingio/germanico che tendeva piuttosto ad una struttura di chiesa nazionale, futuro gallicanesimo. Anche il monachesimo scaturito da Cluny e Hirsau aveva ricevuto l’impronta del “sacro romano impero”, carolingio prima e ottoniano poi. A questi complessi apparati monastici, dove si era arrivati a recitare fino a  138 salmi al giorno, segno di una sorta di storicizzazione della “civitas dei”, “celestis Jerusalem” – secondo i canoni di un semplificato agostiniano medievale – si erano ribellati gli esponenti delle riforma del XI secolo, che rivendicavano per se una maggiore sobrietà, una solitudine romitoriale, un tenore di vita più austero, accompagnato da una liturgia improntata a una maggiore semplicità. Non tanto forse gli iniziatori di Citeaux quanto il fondatore dei canonici regolari premostratensi, Norberto di Xanten, aveva assunto la predicazione itinerante a segno della conversione, pur non approdando poi in concreto alla istituzione di un ordine di predicatori. Il più vicino alla modernità, assunta in qualche modo dai medicanti, è senz’altro l’iniziatore di Gramont, Stefano Muret., che sentì forse più drammaticamente di altri, il problema della imitazione di Cristo attraverso la conformazione alla sua povertà, intesa anche come predicazione itinerante.

Si rilevano allora come due filoni distinti, da una parte la struttura corale monastica, che trova il suo modello nella comunità di Gerusalemme e il suo superlativo nell’esperienza cluniecense, dall’altra una forma più dimessa, dove appare l’esigenza della missio apostolica, il desiderio della romitorialità unito a quello del lavoro manuale, inteso come un “fare” in contrapposizione al contemplare. Le origini di questo filone alternativo si possono forse rintracciare negli inizi stessi della “cristianirtas”, in quella “peregrinatio propter evengelium” inaugurata da Bonifacio Wilfrido, come ideale superiore di vita ascetica, rispetto alla stessa permanenza in monastero. Al sinodo di  Whitby, del 664, gli Inglesi erano riusciti a prevalere sugli Irlandesi proprio grazie alla dimostrazione della paternità petrina delle loro consuetudini. Spinto da questa spiritualità del mondo aglossassone, profondamente legata al vescovo di Roma – della quale già Beda il Venerabile era stato testimone - S. Bonifacio concepì l’evangelizzazione in Europa come un grame pellegrinaggio ad limina apostolorum. Di esso egli ne aveva scritto più volte alla monaca Bugga, con la quale era in frequente contatto epistolare, incitandola a lasciare il monastero, come egli stesso aveva fatto, per  andare a Roma, dove si acquisterebbe la libertà della contemplazione attinta alle pure fonti della spiritualità monastica, il cui scrigno  sarebbero stati i limina apostolorum, le reliquie di Pietro e Paolo, apostoli ed evangelizzatori dell’Orbe. Il pellegrinaggio propter evengelium era dunque a parere di S. Bonifacio il vero itinerario verso la celestis Jerusalm e non la vita monastica. La posizione della recente storiografia non ha dubbi oramai nel ritenere la missione bonifaciana un fallimento. Il futuro sarebbe, almeno nel centro Europa, stato di Crodegango e della nuova ideologia carolingia . Solo i radicali cambiamenti sopravvenuti in occidentale verso l’anno mille, con i fenomeni di inurbamento e la svolta mercantile, avrebbero dato vita a contestazioni del monachesimo e dell’ecclesiologia alto medievale, creando spazi a nuove proposte. Le strutture monastiche che erano entrate a pieno titolo nella dimensione politica ed economica del tempo vennero inizialmente messe in discussione da scelte di tipo eremitico, che ne contestano al mondanizzazione. Tipico è l’esempio di Bernardo de Tiron che fugge dalla carica di abate, dandosi al lavoro manuale e ad un tipo di religiosità più personale, intima. Dopo un periodo di vita ascetica, ispirata alla spiritualità dell’imitazione di Cristo – come alternativa alla vita della chiesa primitiva, della comunità di Gerusalemme – egli scende tra il popolo a piedi nudi e coperto di abiti cenciosi, intendendo portare la gente a stretto contatto con il vangelo; non con una predicazione colta ma con l’esempio della vita. Nel fuggire il mondo l’eremita itinerante si lancia in un’avventura pari a quella del mercante; esperienza solitaria dove tutto deve uniformarsi alle esigenze del viaggio. Come ricordato sopra, più che Roberto di D’Arbriesel o Bernardo Tiron, chi si avvicina maggiormente al callidus negotiator dell’epoca moderna è il Muret.

La materia è certamente complessa e non si vuole qui minimamente offrire una sintesi che avrebbe bisogno di uno studio paziente delle fonti. Si tratta allora solo di alcuni spunti di riflessione, di una ipotesi di lavoro più che di un punto conclusivo. Se realtà economica, sociale, ecclesiale spingono ad una evoluzione della coscienza religiosa che promuove forme diverse di rapporto con Dio, il secolo che in epoca moderna ha visto maggiori cambiamenti a questo livello è stato forse il ‘500, che non ha pari se non in quello attuale. Viaggi oltre oceano, rapporti più frequenti con l’oriente, invenzioni, come ad esempio la stampa, crisi spirituale dei movimento religiosi europei e la Riforma, sono solo alcuni tra i principali fattori che incisero nel cambiamento. Proprio questo secolo, come si è visto, è stato anche quello del Quiñones e della riforma del breviario. La scelta di Clemente VII, che caduta inizialmente sul francescano si era capovolta nella seconda metà del ‘500 a favore del Caraffa, indica chiaramente l’evoluzione di  un secolo che era partito all’insegna della libera discussione e che terminava in un rigido disciplinamento, dove contava l’autorità, nella dimensione assolutistica del concetto, l’ortodossia, nel senso di una contrapposizione a qualsiasi indizio di novità, e infine l’inquadramento in strutture rigide, capaci tenere sotto controllo una situazione europea in preda al nazionalismo guidato dal principe (tralascio volutamente il termine inquisizione e i sui derivati, che richiederebbe di esser spiegato). Senza attardarci nei particolari, per percepire lo scontro tra vecchio e nuovo accesosi intorno al breviario di S. Croce basta leggere il “De Novo breviario tollendo consultatio”, presentato da Giovanni de Arze al Concilio di Trento. I suoi rilievi appaiono subito come il frutto di una mentalità reazionaria piuttosto che il risultato di una critica serena. In senso generale il canonico di Palencia affermava che i cambiamenti nella chiesa erano stati spesso opera del demonio. Il breviario di S. Croce, proponendo novità contrarie alle norme tradizionali, si mostrava avverso alla tradizione e pericoloso, irrispettoso verso la Madre di Dio, attestato sulle posizioni dei protestanti, dal momento che ridimensionava l’ufficio dei defunti, fonte di confusione, per l’importanza data alla scrittura, causa di turbamento delle coscienza, per aver corretto le norme sul canto liturgico, dando più spazio al silenzio.  In sintesi, tutti questi aspetti negativi avrebbero finito per tagliare i legami con la Chiesa, con la tradizione, spingendo verso un futuro incerto. Diverso era stato il giudizio di un S. Francesco Saverio, che ricordiamo commosso dall’atteggiamento di quei bambini che gli chiedevano di essere battezzati e di ricevere l’istruzione cristiana; egli aveva consigliato S. Ignazio di Loyola di adottare tranquillamente l’opera del card. di S. Croce, chiedendo alla Sede apostolica il permesso di estenderne l’uso a tutti i chierici della Compagnia. Si trattava di un tipico conflitto sulla modernità aperta a nuovi valori di efficacia pastorale, di equilibrato spirito pragmatico; prncipi che aveva informato le regole dei nuovi istituti post tridentini, in cui era apparso un nuovo sacerdozio, quello dei “chierici riformati”, che aveva risposto concretamente alle questioni messe sul tappeto dai riformatori di inizio ‘500.

Il risultato finale di questa discussione fu il breviario di Pio V; un compromesso, come sempre accade quando si presenta la necessità di mediare tra  esigenze strutturali, tendenti in genere alla conservazione e coscienza religiosa individuale, più protesa verso il progresso. Il Quiñones era un singolo, forse più attento alle esigenze di quest’ultima, poco disposto alla moderazione, ad aspettare la maturazione dei tempi. Per comprendere i limiti del breviario tridentino, scrive l’autore, “dobbiamo inquadrare le cause. L’impazienza causata dal precedente breviario e le vicissitudini avute con quello del Quiñones, avevano ingenerato uno  scontento e un’intolleranza tale nel clero, che urgeva una soluzione del problema; il tempo a disposizione degli esperti era breve”. Mentre i tentativi di successive riforme, con Urbano VIII e Benedetto XIV, furono praticamente fallimentari, lo spirito del Quiñones, se non proprio la sua opera materiale, continuò ad ispirare le proposte dei vari movimenti di riforma: dal breviario parigino del Fionard, del 1736, agli esemplari nati in Germania, in pieno clima febroniano e giurisdizionalista. Dei principi adottati dal  prelato spagnolo si accoglieva volentieri la tendenza alla semplificazione, il ridimensionamento  delle feste dei santi, la riduzione degli uffici della Madonna, l’intensificazione del ricorso alle scritture, la valorizzazione dell’ufficio domenicale e feriale con l’intera recita del salterio. Insomma il breviario, come anche altri tentativi di riforme falliti nel secolo XVI, trovarono poi legale cittadinanza  in quella generale Aufkäerug che abbracciò diverse correnti di rinnovamento nell’Europa del ‘600 e del ‘700, e che ebbe i suoi migliori frutti nelle stagione muratoriana del “de regolata devozione dei cristiani”. In conclusione non resta che ridare la parola all’autore. Se è vero che il Concilio Vaticano II si è messo sulle tracce del migliore riformismo espresso dalla storia della liturgia presa in senso generale, il p. Elberti ne ha fatto vedere le fonti per quanto riguarda la parte occidentale: questo era lo scopo dichiarato del suo lavoro; “questo – come afferma egli stesso – lo scopo del mandato dato al romano pontefice dal concilio Vaticano II.


 
 
 
 
 
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