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Rivista Antonianum
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Foto Percan Josip , De immortalitate hominis statu innocentiae originalis. Attualitā della dottrina di Giovanni Duns Scoto (Lectura II), in Antonianum, 63/4 (1988) p. 667-679 .

Non sarò, senz'altro, il primo a parlare dell'originalità del pensiero teologico di Giovanni Duns Scoto. Molto è già stato detto, ad es., sulla sua attualità nel campo della teologia fondamentale \ sulla sua straordinaria intuizione per quanto riguarda la centralità di Gesù Cristo nel disegno divino di salvezza (o forse meglio di santità)2. Non starò qui a ripetere quanto è già stato detto, ma cercherò soltanto di evidenziare l'attualità della sua soluzione riguardo all'immortalità  di Adamo,  basandomi   soprattutto   sul   testo   critico  del II libro della Lectura,  ora in allestimento  finale nella nostraCommissione.

Da quanto dirò apparirà l'originalità della sua soluzione rispetto alla tradizione aristotelico-tomista ed anche a quella agostiniano-fran­cescana, soluzione così sorprendentemente aperta ad una visione moderna del disegno di Dio e della creatura-uomo in essa, che alla fine saremo quasi tentati di chiederci perché Giovanni Duns Scoto non sia stato più seguito nel passato, perché non più studiato nel presente?

La vastità e la complementarità della problematica riguardante il peccato del primo uomo, sia dal punto di vista storico che dot­trinale, oltrepassa di per sé i limiti naturali e le possibilità di un semplice discorso. La mia ambizione non è ouella di risolvere tutte le questioni riguardanti l'immortalità di Adamo prima del peccato, ma semplicemente di enucleare, con una certa sistematicità, quei punti del testo critico in cui la sua discordanza con la tradizione scola­stica mi è parsa più significativa, mettendoli anche in relazione con altri testi dottrinalmente o testualmente paralleli. Si tratta concre­tamente delle dd. 19, 20 q. 2 e d. 29. Si noti che nell'Or dinatio non esistono le dd. 15-25 (ci sono pervenute solo nella Lectura e nelle diverse Reportationes); si tratta quindi della dottrina che per la prima  volta  possiamo   leggere   in  un   testo   criticamente   restituito.

Quel che balza subito agli occhi è l'essenzialità del Dottore Sot­tile nel trattare la delicata problematica. Egli tralascia tutti i pro­blemi collaterali, ad essa connessi, e va direttamente "in medias res", domandandosi (nella d. 19): « Utrum primus homo... habuerit corpus immortale »?, e, se sì: « Unde fuit ista immortalitas »? Noi però, se vogliamo capire bene la sua argomentazione, non possiamo fare così, ma dobbiamo dedicare qualche parola ai temi che lo Scoto qui esplicitamente non tratta, che tuttavia suppone.

Sappiamo bene che la questione dell'immortalità del corpo di Adamo prima del peccato suppone la soluzione previa dell'immorta­lità dell'anima personale umana. Questo è fondamentale per una corretta impostazione di un qualsiasi discorso teologico riguardante l'uomo nel disegno divino di salvezza. Non è logico, non è possibile parlare dell'immortalità del corpo se l'anima personale umana non è incorruttibile, e questo Giovanni Duns Scoto lo sapeva bene.

Il discorso è centrale anche dal punto di vista storico. L'aver­roismo latino del secolo XIII, che creò non poco scompiglio nelle Università di Parigi e di Inghilterra3, con la sua tesi dell'unicità e trascendenza dell' "intellectus possibilis", metteva in crisi anche il dogma cristiano dell'immortalità dell'anima personale umana4. Que­sto fatto provocò un'energica reazione presso tutti i grandi maestri dell'epoca, i quali perciò, prima di trattare l'immortalità del corpo ed altre conseguenze dello "status innocentiae", risolvono la que­stione dell'immortalità dell'anima umana. Così Tommaso, che de­dica al problema cinque articoli del suo Commento, così pure Bo­naventura (o meglio l'Halense, perché Bonaventura a tratti dipende qui da lui quasi come uno scolaro dal suo maestro!): egli dedica sei questioni  all'argomento.

Non così Giovanni Duns Scoto. Egli passa qui sotto silenzio molte cose, quasi a voler dire: il dogma non lo discutiamo, noi lo supponiamo e lo accettiamo quale principio  della nostra fede.

Infatti, quando dopo, nel IV libro d. 43 q. 2, si metterà anche lui a discutere sul problema dell'immortalità dell'anima personale umana, contesterà decisamente il metodo, comune a Tommaso ed a molti altri che lo seguirono, di adottare i principi aristotelici, quindi di filosofia non cristiana, per dimostrare razionalmente una verità di fede rivelata. Questa è una caratteristica dello Scoto, che provo­cherà aspri dissensi e discussioni anche in seno alla scuola scotista, tra i suoi stessi discepoli5. Naturalmente non possiamo occuparci qui di questo problema. Lo abbiamo voluto accennare, perché ci sembra questa una caratteristica significativa dello stile e del me­todo di Giovanni Duns Scoto, anche in questa parte dell'opera.

Arriviamo così al punto centrale del discorso: che cosa dice essenzialmente Giovanni Duns Scoto a proposito dell'immortalità del corpo di Adamo (?), in che cosa consiste l'originalità (novità) della sua soluzione rispetto alla tradizione scolastica precedente?

Vediamo prima i punti principali della dottrina tradizionale, riducendola naturalmente a quel che è essenziale, a quegli argomenti, cioè, che Giovanni Duns Scoto usa per la sua contro-argomentazione.

Pietro Lombardo, Sent. II d. 19 e. 1 n. 3 [Spicilegium Bonaventu-rianum IV 422], riprendendo il tema agostiniano6, condensava la soluzione del problema in questi termini: « In ilio primo statu habuit [homo] posse mori et posse non mori; et haec fuit prima humani corporis immortalitas, scilicet posse non mori ».

La corrente tradizionale, guidata dai due capisaldi Tommaso e Bonaventura, accetta sostanzialmente questa tesi della mortalità come possibilità e dell'immortalità di fatto, finché l'uomo perdurava nello "status innocentiae". Tommaso, Sent. II d. 19 a. 2 in corp. [ed. Parmen. VI 556fo] dice così: « Quodam modo erat mortalis, in quantum poterat mori; et quodam modo immortalis, in quantum poterat non mori ». Similmente Bonaventura, Sent. II d. 19 a. 2 q. 1 in corp. [II 465£>] così ragiona: Se gli ablativi « ipso peccante » e « ipso non peccante » si riferiscono alla possibilità (al "posse mori"), « veritatem habet locutio. Si autem ablativi illi referantur ad actum..., sic locutio falsa est », perché — prosegue Bonaventura — non è possibile « quod simul esset innocentia et mortis sive corruptionis poena ».

Giovanni Duns Scoto (ma chiamiamolo qui "Dottore Sottile", lo merita!), non accetta questa soluzione comune. Nella sua rispo­sta (d. 19 n. 9ss.) egli è d'accordo con la seconda parte dell'argo­mentazione bonaventuriana, cioè che di fatto non sono mai esistite insieme l'innocenza e la morte, non però perché questo sarebbe stato impossibile (contradditorio in sé), ma perché di fatto è stato così, cioè: l'uomo ha peccato di fatto e le cose hanno avuto dopo una loro evoluzione che conosciamo. Di per sé però non è vero che la morte naturale dell'uomo e lo "status innocentiae" siano state in­compatibili. La morte, nello stato di innocenza o di giustizia origi­nale, non doveva necessariamente essere una "poena" per Adamo, come lo è per noi adesso, ma poteva benissimo essere considerata un fatto naturale. Dice lo Scoto (n. 16): •< Dico quod possibile est quod simul stent innocentia et mors i n primo homine, ita quod fuisset mors in statu innocentiae, tamen de facto numquam simul stetissent ». Neil' "Ad rationem in oppositum" (n. 18) dice: « Dicen-dum quod de facto mors intravit in mundum per peccatimi..., fuisset tamen [homo] mortalis in statu innocentiae »; ed anche nell' "Ad rationem prò opinione aliorum", cioè di Bonaventura, dice così (n. 19): «De facto nunc [cioè: in statu naturae lapsae] mors est poena; potuisset tamen tunc fuisse condicio naturalis, si fuisset tunc instituta vere, sicut nunc non est poena ovis quod moriatur..., sed est  condicio  consequens   naturam  eius ».

In queste parole forse non appare subito in tutta la sua chia­rezza la novità della soluzione scotiana rispetto alla tradizione sco­lastica, tutta la profondità della sua geniale intuizione, tutta la ca­tena di conseguenze logiche che ne derivano per la teologia cattolica.

Analizziamo però un po' il contesto, il "Sitz im Leben" dottri­nale delle due soluzioni: tradizionale e quella dello Scoto, e lo ca­piremo.

Fondamentalmente tutto dipende dalla risposta che si dà alla domanda: Donde aveva il primo uomo l'immortalità, cioè: « Unde fuit ista immortalitas »? (d. 19 n. 5), dalla "natura" o dalla "gra­zia", oppure — per dirla in altri termini scolastici — "ab intrin­seco" o "ab extrinseco"?

E così la questione si sposta nuovamente sul problema che Gio­vanni Duns Scoto non ha trattato espressamente in questa parte del Commento, cioè sull'immortalità dell'anima personale umana, dalla quale dipende logicamente, come abbiamo già detto, l'immortalità o il "posse non mori" del corpo nello "status innocentiae", — cosa che si vedrà più chiaramente nel seguito del discorso.

A questo punto la linea dell'argomentazione degli scolastici si allarga ulteriormente: Il primo uomo era stato creato "in naturali-bus" o anche "in gratuitis"?

Una corrente, che per Bonaventura è « communior et probabi-lior »7, sosteneva che Adamo fu creato dapprima "in naturalibus" (che non bisogna confondere con "natura pura"), condizione che includeva anche la "grazia attuale" e i doni "preter-naturali". Gra­zie a questo, l'uomo creato "in naturalibus" godeva di un'armonia perfetta degli istinti e delle potenze dell'anima, ed aveva la possi­bilità di non morire ("posse non mori"). Non aveva però la "grazia santificante",  fonte  delle virtù meritorie8.

Un'altra corrente, che è anche del d'Aquinate, riteneva che l'uomo inizialmente era stato creato sia "in naturalibus" che "in gratuitis", cioè l'uomo fin dal primo momento della sua creazione era già disposto alla "grazia santificante"9. Dal momento che l'anima è il soggetto della giustizia originale10, tutte le conseguenze che questo "status" comportava erano necessariamente in stretta relazione ad essa, cioè — secondo Tommaso — la "parte formale", che era la su­bordinazione dell'anima a Dio, e la "parte materiale", che consi­steva nella subordinazione della parte fìsica a quella spirituale ". Quindi anche l'immortalità del corpo, unitamente all'armonia ed in­tegrità fisica, era una logica conseguenza della situazione dell'anima. Finché essa era obbediente a Dio, anche il corpo era in armonia e — di conseguenza — poteva non morire. Invece, quando l'anima diventò disobbediente, cioè "morta" spiritualmente (non ontologicamente!) per il peccato la, anche il corpo perse l'armonia che aveva prima del peccato e subentrò la necessità della morte fisica. Per Tommaso, dunque, l'anima immortale è soggetto  (cioè la fonte e la causa)  del­l'immortalità del corpo (del "posse non mori").

Ma l'anima è immortale (nel senso ontologico) per sua stessa natura ("ab intrinseco") o per grazia ("ab extrinseco")? Oppure, detto in un altro modo ancora, l'immortalità dell'anima personale umana è accessibile alla ragione umana o no?

E' generalmente noto, in proposito, il triplice argomento della corrente, che in Tommaso d'Aquino ha il suo più alto rappresentante, in favore dell'immortalità naturale dell'anima, argomento che si rifa sostanzialmente alla psicologia aristotelica:

  1. ex simplicitate animae (= argomento metafisico);
  2. ex desiderio felicitatis aeternae (= argomento teleologico); e) ex desiderio iustae sanctionis (= argomento morale » n.

Giovanni Duns Scoto non nega l'immortalità naturale ontolo­gica dell'anima umana (nessun cattolico lo nega!), ma contesta il valore decisivo degli argomenti razionali quando si tratta delle verità della fede rivelata 14.

Se si accetta questo principio dell'immortalità dell'anima umana "ex natura", dimostrabile razionalmente, allora ci si impongono logicamente alcune conseguenze:

  • il discorso sull'immortalità dell'uomo (dell'anima e del cor­po!) diventa — in linea di massima — un problema della "natura" e non della "grazia", un discorso filosofico e non teologico;
  • il peccato di Adamo diventa a sua volta il "factum tre-mens", che ha sconvolto il disegno originario del Creatore, privando l'uomo dell'immortalità del corpo che gli era stata data come pos­sibilità;
  • ed ha costretto, per così dire, Dio a correre ai ripari chi-mando in causa il Figlio-Redentore.

Se si dice invece che l'immortalità dell'uomo, sia che dell'anima sia del corpo 15, non fa in nessun modo parte de tura", ma è ed era sempre un dono gratuito soprannaturale16, al quale dono anche l'uomo nello "status  innocentiae",  di pt mortale,  poteva non morire,  cioè  quel   "posse  mori"  naturale fatto « numquam fuisset reductum ad actum, nisi [homo] pecct set »  (d.  19 n. 9) ", allora il discorso  si apre ad altre prospettiv molto più illuminanti. Nel centro del progetto divino non sta più l'uomo (corpo ed anima!) delle occasioni perdute, ma il Cristo Si­gnore, mediatore di ogni dono perfetto e di ogni grazia18, — quindi anche di quella grazia in virtù della quale Adamo, pur avendo un corpo  mortale, poteva  non  morire.   E   così  il  mistero   del  peccato umano e della morte si allaccia con naturalezza al mistero del Cristo Signore.

E' ovvio che con questi brevissimi accenni, piuttosto sommari, non si pretende di risolvere la complessa problematica dell'immorta­lità e della grazia, che d'altronde anche nell'argomentazione del no­stro Dottore conserva alcunché di non risolto, di non chiarito fino in fondo, almeno non in quella parte della sua esposizione che è stata presa in considerazione. Voglio solo dire che mi è parsa questa l'unica chiave di lettura per poter capire la sua presa di posizione contro la corrente tradizionale, la quale (penso si possa dire sempli­ficando un po'!), vedeva nel peccato dell'uomo la causa dell'immor­talità perduta (a); nella morte una condanna ("poena") tremenda ed irreparabile per il peccato commesso (b); nell'errore dell'uomo il primo motivo dell'Incarnazione  (e).

a)  Nella distinzione 29: « Utrum iustitia origìnalis fuerit... alìquod donum supernaturale additum naturae? », Giovanni Duns Scoto af­ferma, contro il Gandavense, che la giustizia originale in cui è stato creato Adamo era un dono soprannaturale (n. 11-12). Ne segue che la "natura" era quella che è ora: l'anima immortale, il corpo mor­
tale19. Quindi nemmeno il peccato di Adamo, per quanto compro­mettente, poteva privare la nostra natura del privilegio che la sua stessa natura non aveva prima del peccato. La "materia prima" della creatura-Adamo non differisce in questo da quella di cui sono com­posto io. Dice infatti lo Scoto (n. 22) : « Nec video quod peccatum
aliquid corrumpat quod est de natura animae, sed corrumpit [tantum] illud cui opponitur [cioè: iustitiam]: privat autem ex repugnantia for­mali rectitudinem in actu, quae deberet inesse et non inest, — sed non corrumpit de natura rei, scilicet animae in se ».

b)   Per lo stesso motivo, neppure la grazia, il dono sopranna­turale, poteva cambiare la natura della creatura-uomo rendendola immortale "ex natura". Dice il Dottore: Per il dono della grazia20, l'uomo nello "status innocentiae" godeva di alcuni effetti positivi di cui ora noi, suoi figli, non possiamo più godere, ad es. la sua
volontà era legata più della nostra al fine ultimo e poteva  « tunc retrahere se delectabiliter ab appetibili potentiae inferioris sine poe-na » (n. 11), « plus tunc delectabitur voluntas in fine naturaliter quam potest delectari in aliquo delectabili sensus inferioris » (n. 12), e « tunc habuit quo potuit stare valde, sed non profìcere » (n. 15); non però per questo era « immortalis sic quod non poterat corrumpi, nec non-moriturus propter causas intrinsecas, quia nulla causa in­trinseca fuit quare anima non potuit separari... Unde donum illud [supernaturale] non potuit praeservare a morte..., sed tantum po­tuit  impedire  rebellionem   [virium] »   (n.   16).

c) Tuttavia Giovanni Duns Scoto è concorde con la corrente tradizionale nel dare notevole peso al peccato di Adamo, perché ha cambiato di fatto la condizione umana: dal "posse non mori" ini­ziale si è passati alla necessità della morte. Invece di ricevere il corpo "mortale per naturam" e "immortale in potentia per donum su­pernaturale", noi ereditiamo — come dice Paolo (Rm. 8, 10) — « un corpo già morto per il peccato »21; ma nel disegno divino nulla è cambiato, perché — sostiene lo Scoto — la predestinazione divina riguardo  all'uomo  è antecedente  al  peccato umano.

Nella d. 20 q. 2: « Utrum in statu ìnnocentiae fuissent iidem geniti qui modo sunt electi a Deo? », il Dottore nostro ragiona così (n. 30): « Et sic praedestinatio electorum [nullam recipit variationem], cum sit prior quam praevisio lapsus: qualitercumque se habuerit de lap-su hominum vel angelorum, nulla tamen propter hoc facta est va-riatio circa statum electorum, nec circa personas vel numerum eo-rum ». Da questa premessa Giovanni Duns Scoto fa poi alcune dedu­zioni logiche ancor più straordinarie, ancor più dense di contenuto teologico. Egli dice (n. 31-33): « Ex quo sequitur primo quod non oportet multum dolere nec gaudere de lapsu Adae, quia iidem numero et tantum illi qui tunc fuissent salvati, salvabuntur modo per Redemptorem. Sequitur etiam quod illi qui sunt electi, non salvabantur propter ruinam angelorum restaurandam... Sequitur etiam quod Christus non est electus propter peccatum primi hominis, sed fuisset etsi primus homo non peccasset ».

Questo mi sembra il punto culminante dell'argomentazione del Dottore  Sottile!   Dio nella  sua  "prima azione"  creatrice   (è  questo infatti il significato della "prae-destinatio" — secondo lo Scoto — la "prima actio"), ha voluto la creatura umana liberamente par­tecipe alla sua vita divina — in Cristo Signore, non in Adamo! Infatti, secondo lo Scoto22, la gloria di Cristo come motivo ("finis") dell'Incarnazione precede e sorpassa il "caso", cioè la previsione del peccato dell'uomo. Un'azione così splendida, qual'è l'Incarnazione del Figlio, non può essere stata occasionata dal peccato, dalla mise­ria umana. Questo perché — spiega Io Scoto (Lectura II d. 29 n. 30)23 —, Dio è « ordinate volens ». Quel che ama subito dopo se stesso, è la "beatitudine della creatura beatifìcabile" (n. 30); « nec est verisimile — dirà nélì'Ordinatio III24 — tam sumum bonum [cioè: gloria Christi]... esse tantum occasionatum, scilicet propter minus bonum », che sarebbe la predestinazione di Adamo "ad glo-jiam", e tantomeno poteva essere occasionato dalla previsione della sua caduta.

Resta il fatto del peccato, ma non è possibile che « propter so-lam istam causam videtur Deus praedestinavisse illam animam [Chri­sti] ad tantam gloriam »25. Possiamo dire che dopo il "caso", cioè dopo la caduta, è cambiata di fatto la condizione dell'uomo sulla terra, però il disegno divino riguardo all'uomo precede il peccato, e con­tinua senza alterazioni fino alla fine, o, per dirla con Paolo, fino al «pléroma» (Col. 1, 19; 2, 9-10). Ed è questa la "prae-destinatio" nell'eterno proposito divino, "actio" che precede e sorpassa Adamo e il suo compromettente peccato, e vede in Christo Signore, l'inizio e la fine, l'Alfa e l'Omega, del progetto divino riguardo alla creatura-uomo. Se per la colpa di Adamo abbiamo ereditato il "corpo già morto", per la grazia di Cristo anche questo nostro "corpo già morto" può respirare, già fin d'ora, nella fede, l'aria della libertà e della vittoria (cf. I Cor 15, 54).

Ecco perché io parlo dell'attualità, della straordinarietà della soluzione del Dottore Sottile nel contesto della tradizione scolastica! Dalla prospettiva tradizionale, che inciampava sempre nello scoglio del peccato2S, che condizionava tutta la natura umana, intrappo­lando in questo "circolo vizioso" anche Dio stesso, Giovanni Duns Scoto, in uno slancio fenomenale di intuizione illuminata, esce dai meandri del peccato allo spazio cosmico, dove è Cristo, l'Uomo-Dio, quella "pietra angolare" su cui poggia il disegno divino di beati­tudine, e non l'uomo caduco e la storia della sua miseria, se lasciato a se stesso.

Il "misterium iniquitatis" resta pur sempre una realtà oscura per la mente umana, ma credo che la soluzione scotiana, come si prospetta nel II libro della Lectura, e nelle altre parti del suo Commento che ho enunciato, porti un po' di luce nuova anche in questo ambiente, indicandoci il volto del Cristo Signore là dove pareva di non poterci vedere più nulla.

* * *

Il problema del peccato originale e delle sue conseguenze è tutto un lungo dibattito nella teologia scolastica, con tantissime ramificazioni, che non è facile circostanziare. Questo si riflette neces­sariamente anche nell'esposizione di Giovanni Duns Scoto,

Cume tutti, anch'egli è figlio del suo tempo per quanto riguarda gli schemi teologici e filosofici che si sono stratificati attraverso i numerosissimi commenti al testo-base di Pietro Lombardo e per quanto riguarda la terminologia specifica (ad es.: "humidum radi­cale", "lignum vitae", "portio superior et inferior", "propagatio ex traduce", ecc.).

Per non appesantire il discorso, io mi sono volutamente limitato a pochi elementi, che ho estratto dal mosaico dell'argomentazione scolastica, per metterli in un nuovo contesto, diciamo più moderno. E abbiamo potuto vedere che questi elementi dottrinali, alcuni piut­tosto marginali nel complesso del "discursus" scotiano della Lectura, si trovano molto bene anche in questo nuovo quadro, senza dover far forza al testo del Dottore, il che dimostra, a mio avviso, ulteriormente il valore oggettivo della sua soluzione. Naturalmente ho fatto e ho detto solo quanto mi permetteva il testo critico delle distinzioni esaminate, per non rischiare di dire quel che il Dottore non intendeva dire.

Sono sicuro però che la pubblicazione del testo integrale delle distinzioni (pubblicazione ormai prossima anche nella peggiore delle ipotesi!), qui solo parzialmente esaminate e riportate, offriranno nuovi elementi utili, altri punti interessanti che potranno servire, spero, come ispirazione e come sfida anche per la nostra ricerca teologica francescana, che oggi sembra aver perduto un po' della sua identità precisa, forse proprio perché ci si è allontanati troppo da quelle che dovrebbero essere le sue fonti naturali e genuine.

Lo studio della spiritualità, oggi — grazie a Dio —, tanto dif­fuso tra le giovani leve dell'Ordine, potrà pure trovare una nuova illuminazione, un nuovo slancio nello studio di colui che da Paolo VI fu chiamato « il perfezionatore di S. Bonaventura » e « il rappresen­tante più qualificato della Scuola francescana »27.

In un clima di rinnovato interesse per il nostro Dottore, che noi auspichiamo, anche il compito della Commissione Scotista sarà, senza dubbio, più facile e più fruttuoso.


 
 
 
 
 
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