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Rivista Antonianum
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Foto Tonna Ivo , Miscellanea: Il criterio volontaristico nella dottrina etica di Guglielmo di Ochkam, in Antonianum, 69/2-3 (1994) p. 328-337 .

SUMMARY: The author proposes to make a study of the ethical teachìng of Ockham, as it appears in his Commentary on the Book of Sentences of Peter Lombard and in his Quodlibeta, in order to establish the norm or the criterion of morality. Ockham presents two norms: (a) objective and ultimate, which is the will of God; and (b) subjective and proximate, which is the rectitude of reason and human will. One may, therefore, speak of two systems of morality - one based on the will of man and the other founded on the will of God. According to the author the two systems stand in mutuai relationshìp; there exìsts also a strict and intimate dependence of the one on the other. It is relevant to note that the doctrìne of God's omnipotence constitutes a very ìmportant point in the philosophy of Ockham. As to the condìtions required for a virtuous act, Ockham maintaìns that the act must be willed freely; it must be willed in conformity with righi reason; and it must be motivated by the love of God and in obedience to his will. The study concludes with a criticai note on this ethical theory of the franciscan thinker.

Prima di entrare direttamente nell'argomento ritengo opportuno fare un breve cenno sulla personalità di questo grande Maestro, riconosciuto nel mondo medievale e francescano come il « Venerabilis Inceptor » - l'i­niziatore della via « moderna » di fare filosofia. Può essere considerato co­me il pensatore più interessante della tarda Scolastica. Si presenta come pensatore originale per il suo atteggiamento nei confronti dei Maestri che l'avevano preceduto. Si caratterizza come pensatore indipendente, audace, acuto, dotato di capacità critica notevole. Alcuni principi generali, ritenuti come validi e persuasivi, vengono applicati da Ockham con coraggio e in modo sistematico e logico. Nel suo pensiero si possono notare diverse com­ponenti. Esiste l'elemento empirico, l'elemento razionale e logico, l'ele­mento volontaristico e l'elemento teologico. Una delle preoccupazioni di Ockham fu l'eliminazione dalla teologia e dalla filosofia cristiana di ogni traccia del necessitarismo greco, particolamente la dottrina delle essenze, la quale, a suo avviso, comprometteva l'insegnamento cristiano della libertà e dell'onnipotenza di Dio. La ragione è qualcosa di sacro, un dono di Dio; per conseguenza le leggi della ragione devono essere rispettate. Ogni usur­pazione del diritto di seguire le leggi della propria ragione deve essere re­spinta, a meno che non venga dall'intervento dell'autorità suprema, che è la fonte da cui deriva la stessa ragione umana.

Siccome Dio è l'unico ente assoluto e necessario, la conoscenza nostra delle cose create esige che noi esaminiamo accuratamente queste cose e in­vestighiamo che cosa siano attualmente; perché, per quanto riguarda Dio, esse potrebbero essere diverse. Ockham non perde mai di vista questa idea fondamentale cristiana, che si oppone in modo radicale a qualsiasi neces­sitarismo: non esiste nessuna necessità inerente perché qualsiasi cosa in questo mondo, incluso anche l'ordine etico, debba essere ciò che attual­mente è. Ockham non dimentica mai che questo mondo è assolutamente dipendente dalla volontà di Dio: il cristiano deve credere fermamente nel­l'onnipotenza di Dio e nella contingenza delle creature. L'indagine filoso­fica di Ockham rappresenta il tentativo del teologo nella ricerca di una ve­rità assoluta in questo mondo contingente. È un teologo che contempla il mondo dal punto di vista dell'assoluto.

Nella trattazione diretta del nostro argomento vogliamo rilevare che, a giudizio del P. Boehner, lo studioso francescano che ha dato un valido con­tributo per l'edizione critica delle opere di Ockham a cura dell'Istituto Francescano dell'Università di S. Bonaventura a New York (U.S.A.), c'è ancora molto da esplorare nel campo etico del pensiero filosofico di Ockham per poter arrivare ad una genuina interpretazione della sua dot­trina1. A nostro avviso, Ockham nella sua teoria dell'etica ha seguito, alme­no nelle linee generali, la posizione di Duns Scoto, traendo a logiche con­clusioni le idee fondamentali del Dottor Sottile.

Ockham tratta della norma o criterio della moralità nel suo Commen­tario alle Sentenze (Reportatio e Ordinatio) e nei suoi Quodlibeta. Come la dottrina dell'onnipotenza di Dio è un elemento molto importante nel­l'insegnamento filosofico di Ockham, così pure possiamo affermare che la stessa dottrina rappresenta il fondamento della sua dottrina etica. Dio può fare tutto; tutto ciò che può essere fatto (« omne factibile »,) purché non sia implicata qualche contraddizione2. A questo proposito, Ockham pone un accento particolare sulla distinzione tra la potenza assoluta di Dio (che cosa può fare Dio) e la potenza ordinata di Dio (che cosa fa Dio)3.

Ockham definisce l'etica o la scienza morale come quella scienza che ha per suo oggetto gli atti umani che sono sotto il dominio della volontà e che vengono emessi secondo il dettame naturale della ragione e secondo altre circostanze4. Per un atto morale buono è necessario che questo sia vo­luto liberamente e che sia voluto secondo il giudizio della retta ragione. Possiamo dire che, come condizioni dell'atto moralmente buono e cattivo, anche Ockham postula l'azione tanto dell'intelletto come quella della vo­lontà. Tuttavia egli osserva che nella sua operazione di dettare o di formu­lare il giudizio pratico, la ragione deve avere la sua propria norma secondo la quale deve agire perché possa essere nel senso stretto « retta » e non er­ronea. Inoltre, come condizione essenziale per l'atto virtuoso, Ockham esi­ge che questo atto sia motivato dall'amore di Dio e emesso in obbedienza alla volontà divina. Da un attento studio della sua dottrina etica risulta che Ockham presenta due norme di moralità: (a) una oggettiva e ultima, che è la volontà di Dio; (b) l'altra soggettiva e prossima, che è la libera volontà del­l'uomo e la rettitudine della sua ragione. Le due norme stanno in mutuaOckham definisce l'etica o la scienza morale come quella scienza che ha per suo oggetto gli atti umani che sono sotto il dominio della volontà e che vengono emessi secondo il dettame naturale della ragione e secondo altre circostanze4. Per un atto morale buono è necessario che questo sia vo­luto liberamente e che sia voluto secondo il giudizio della retta ragione. Possiamo dire che, come condizioni dell'atto moralmente buono e cattivo, anche Ockham postula l'azione tanto dell'intelletto come quella della vo­lontà. Tuttavia egli osserva che nella sua operazione di dettare o di formu­lare il giudizio pratico, la ragione deve avere la sua propria norma secondo la quale deve agire perché possa essere nel senso stretto « retta » e non er­ronea. Inoltre, come condizione essenziale per l'atto virtuoso, Ockham esi­ge che questo atto sia motivato dall'amore di Dio e emesso in obbedienza alla volontà divina. Da un attento studio della sua dottrina etica risulta che Ockham presenta due norme di moralità: (a) una oggettiva e ultima, che è la volontà di Dio; (b) l'altra soggettiva e prossima, che è la libera volontà del­l'uomo e la rettitudine della sua ragione. Le due norme stanno in mutua relazione; ma la norma fondata sulla ragione umana dipende strettamente dalla norma superiore, fondata sulla volontà divina.

1. La norma oggettiva e ultima: la volontà di Dio

Come bene osserva Boehner5, la norma oggettiva della moralità non può essere qualche legge impersonale, come sarebbe la nozione pura di « legge naturale ». In altre parole, secondo questo autore, Ockham non fonda la sua etica su qualche legge anonima e astratta, che pervade tutto l'ordine morale, o su qualche cosa da cui lo stesso Dio sarebbe dipendente, come per esempio i « valori etici ». La sua etica, invece, si basa su un Prin­cipio personale, che è sommamente buono, sommamente sapiente e som­mamente giusto6.

L'uomo dipende totalmente da Dio, ed è precisamente questa dipen­denza che costituisce il fondamento ontologico dell'ordine morale. L'uo­mo, come creatura, è tenuto a volere quello che Dio, come Creatore, co­manda di volere, e di non volere quello che il Creatore comanda di non vo­lere7. Per conseguenza il contenuto della legge e dell'ordine morale viene fornito dai precetti di Dio8. Si può osservare come tale concezione perso­nale della legge morale è intimamente connessa con la insistenza costante che Ockham fa sull'attributo dell'onnipotenza e della libertà in Dio. Secon­do il pensatore francescano, i filosofi suoi predecessori, con la loro teoria di una legge naturale immutabile, avevano trascurato la dottrina dell'onni­potenza e della libertà divina. Se si accettano come rivelate queste due ve­rità, allora anche l'ordine etico o morale deve essere totalmente contingen­te, nel senso che la legge morale deve dipendere dalla volontà creatrice di Dio, che è essenzialmente libera e onnipotente. In questo modo, Ockham poteva senza difficoltà respingere la nozione di una legge naturale, che è nella sua essenza immutabile e necessaria. È la volontà divina che costitui­sce la norma oggettiva e ultima della moralità, perché ogni legge morale trova il suo fondamento nella libera ordinazione di Dio. In un testo particolare del Quodlibeta9, Ockham dice che la ragione, per cui un atto emesso contro il giudizio o il dettame della retta coscienza deve considerarsi vizio­so, si trova precisamente nel fatto che in questo caso sarebbe emesso con­tro il precetto divino e la volontà divina la quale vuole che l'atto umano debba emettersi in conformità alla retta ragione.

Ockham, come abbiamo già osservato antecedentemente, insiste molto sull'affermazione che Dio può fare e può comandare tutto ciò che non coinvolge contraddizione logica. È vero che Dio ha ordinato all'uomo di non fare certe azioni (come il rubare, il commettere l'adulterio, l'odiare lo stesso Dio, ecc.); tuttavia, queste azioni, così proibite, potevano essere co­mandate da Dio all'uomo, e nel caso che fossero state comandate, sareb­bero divenute atti piuttosto virtuosi e meritori10. Non si può negare che le conclusioni logiche, dedotte da questa teoria personale dell'etica, appaiano considerevolmente azzardate e forse anche censurabili. Malgrado questo, la tesi occamista deve essere compresa secondo la interpretazione personale del pensatore inglese. Tutte le azioni menzionate sopra sono cattive preci­samente perché sono proibite da Dio; ma nell'ipotesi della loro non proi­bizione, ossia del comando opposto di commetterle, le stesse azioni diver­rebbero virtuose per il semplice fatto che sono volute da Dio. Nell'affermare questo, Ockham non voleva in nessun modo incoraggiare l'immoralità, ma piuttosto accentuare ed esaltare l'onnipotenza e la libertà assoluta di Dio.

Come si vede, nella teoria etica di Ockham è l'autoritarismo divino che ha l'ultima parola. L'uomo, come creatura libera ma dipendente da Dio, è moralmente obbligato a conformare la sua volontà alla volontà divina per quanto riguarda tutto ciò che Dio ordina o proibisce. Assolutamente par­lando, Dio può comandare o proibire qualsiasi atto, purché non sia impli­cata qualche contraddizione. Tuttavia, attualmente ovvero nella presente economia, Dio ha stabilito un ordine morale ben definito. Come essere ra­gionevole, l'uomo comprende che deve sottomettersi a questo ordine e ob­bedire a questa legge morale. Inoltre, nel caso che l'uomo non riesca a co­noscere quello che Dio ha ordinato o proibito, egli è tenuto a fare ciò, che, secondo il suo retto giudizio o la sua onesta discrezione, crede di essere conforme ai precetti di Dio. L'agire diversamente significherebbe agire

contro quello che si crede essere l'ordinazione divina, e comportarsi in questo modo sarebbe una trasgressione morale.

Potrebbe sembrare che è nella sua capacità di teologo che Ockham ci fornisce la propria teoria etica, fondata sull'elemento autoritario cioè sulla volontà di Dio.

 


 

2. La norma soggettiva e prossima: la libera volontà dell'uomo e la retti­tudine della ragione

 

Fedele alla tradizione francescana del volontarismo, la cui nota carat­teristica consiste nell'importanza che si dà alla volontà come potenza auto­determinante, e nel primato o nella preminenza assegnata alla volontà ri­spetto all'intelletto, Ockham sostiene che il campo della moralità appartie­ne esclusivamente al dominio della volontà. Soltanto l'atto della volontà può essere virtuoso o vizioso. Ogni atto, che non soggiace immediatamente al potere della volontà, può essere considerato e chiamato atto morale solo parzialmente oppure per pura denominazione estrinseca. Il ruolo della ra­gione consiste piuttosto nalla prudenza attualmente richiesta per l'emissio­ne dell'atto moralmente buono. Questo è il significato preciso dell'asser­zione: « L'atto umano deve essere emesso in conformità alla retta ragio­ne ». Da parte sua, Ockham propone di dare la propria interpretazione del concetto scolastico o tradizionale della « retta ragione » (la « recta ra­tio »). Indubbiamente, la rettitudine della ragione viene considerata an­ch'essa come la norma almeno soggettiva e prossima della moralità. Tutta­via, Ockham insiste ad affermare in modo esplicito che « la rettitudine del­la volontà sta sempre in conformità alla rettitudine della ragione »n. L'uo­mo può eventualmente sbagliare nell'interpretare il dettame della retta ra­gione; ciononostante, quantunque sia nell'errore, egli è sempre tenuto a conformare la sua volontà a quello che crede di essere prescritto dalla retta ragione. In altre parole, l'uomo deve sempre seguire la propria coscienza, anche quando questa è erronea12. L'uomo è moralmente tenuto a fare tut­to ciò che crede sinceramente e con tutta la buona fede che sia retto. Ockham è tutto intento ad elaborare questa dottrina, comune nel medioe­vo, esprimendola in modo chiaro e inequivoco.

L'atto umano dev'essere emesso liberamente; dev'essere emesso in conformità alla retta ragione nel caso dell'atto moralmente virtuoso, o con-tra la retta ragione nel caso dell'atto moralmente vizioso. Soltanto l'atto della volontà può considerarsi atto morale. Ockham però osserva che, ben­ché la libera volontà e la retta ragione siano essenziali per l'emissione del­l'atto morale, tuttavia, questi due elementi non sono sempre e ovunque co­me la volontà e la ragione devono essere, cioè intrinsecamente « retta vo­lontà » e « retta ragione ». Per essere tali, la volontà e la ragione devono essere regolate dalla volontà di Dio. L'uomo ha bisogno di una norma esterna e superiore secondo la quale deve ordinare le sue azioni morali. Questa norma suprema della moralità o volontà di Dio, si manifesta all'uo­mo attraverso i precetti divini. L'obbedienza alla volontà di Dio deve essere intesa nei termini equivalenti di amore di Dio: « Ama Dio e fa quello che Dio vuole »13. Il senso stretto dell'affermazione agostiniana « Ama et fac quod vis » dovrebbe essere questo: ogni azione per essere buona deve es­sere motivata dall'amore di Dio. L'atto di amare Dio è, quindi, secondo Ockham il primo principio e la fonte di ogni atto moralmente virtuoso.

Da questa esposizione sommaria del criterio soggettivo e prossimo della moralità, cioè delle condizioni richieste da parte dell'uomo per l'atto virtuoso, il problema che sorge immediatamente si colloca in intima con­nessione con l'oggetto principale dell'atto virtuoso, che è il fine dell'atto. Indubbiamente, il fine come oggetto principale dell'atto virtuoso occupa un posto speciale, un posto di maggiore importanza e interesse in tutta la problematica della scienza etica, il cui compito consiste nel trattare degli atti morali dell'uomo. Si capisce, quindi, che al fine deve essere attribuita un'attenzione particolare proporzionata alla sua importanza nel campo dell'etica. Ma ci si domanda: Qual è il fine richiesto? Certamente, non si deve lasciare alla stessa retta ragione determinare arbitrariamente il fine che si deve raggiungere. Nella sua funzione di dettare, la stessa retta ragio­ne deve avere una norma secondo la quale agisce perché possa essere au­tenticamente « retta », e non erronea, ragione. Sembrerebbe impossibile alla retta ragione di essere la sua propria norma della moralità come la Scuola Kantiana ci vorrebbe far credere con la sua insistenza che l'univer­salità e la necessità della legge morale dipende dall'« imperativo categori­co ». Tanto meno si potrebbe sostenere l'insegnamento degli Stoici secon­do cui la retta ragione costituirebbe la norma ultima della moralità. Infatti lo Stoicismo afferma nel campo etico che la virtù significa vivere secondo la ragione, e la ragione ci dice che, tutto ciò che avviene, deve avvenire per la realizzazione di un bene superiore voluto dalla provvidenza di Dio (che è concepito in modo immanentistico): per conseguenza, l'uomo è virtuoso quando desidera ciò che avviene e null'altro. Ockham esclude pure che la norma della moralità possa essere identificata con una legge impersonale e anonima, che pervade la natura, o come qualcosa a cui anche Dio si sotto­mette14. In questo contesto possiamo comprendere come e perché Ockham si rivolge all'amore di Dio, manifestato attraverso l'obbedienza alla volontà divina, come la norma che deve seguire la retta ragione. La retta ragione non è autonoma. Per essere « retta », la ragione deve essere regolata dalla norma suprema, dalla volontà di Dio, espressa nei suoi precetti. In tutte le cose dettata dalla ragione, la norma è sempre la volontà di Dio. Questo lo esprime molto bene Ockham in questa sua affermazione: « Per il fatto stes­so che Dio vuole qualcosa, la retta ragione umana deve anche dettare che la volontà di Dio dev'essere osservata »15.

A nostro giudizio, Ockham, nel presentare questo secondo tipo di mo­ralità, fondata sulla volontà umana e sulla rettitudine della ragione, tratta del problema etico piuttosto dal punto di vista strettamente filosofico. Bi­sogna, però, notare che nel suo ragionamento da filosofo, non è chiaro có­me dev'essere interpretata la situazione morale dell'uomo, che non ha nes­suna conoscenza della rivelazione e neppure dell'esistenza di Dio. Se la legge morale dipendesse unicamente dalla ordinazione divina, come si po­trebbe conoscere il contenuto della stessa legge dall'uomo senza fede? Se il contenuto di questa legge potesse essere conosciuto senza la rivelazione, come potrebbe dipendere semplicemente dalla scelta divina? Potrebbe sembrare che l'unica via possibile per superare questa difficoltà sia questa: tutto ciò che può essere conosciuto senza la rivelazione, è semplicemente un codice provvisorio di moralità fondato su considerazioni non teologiche. Tuttavia, che Ockham abbia avuto effettivamente nella sua mente tale pre­cisa nozione, la quale comporterebbe la possibilità di una etica puramente filosofica e « laica », distinta da una etica imposta da Dio e obbligatoria, questo non è da affermare. Ockham pensava sempre in termini di un codi­ce etico, comunemente accettato dai cristiani, malgrado la sua insistenza che questo codice dipendeva dalla libera ordinazione divina. Non sembra facile rispondere alle difficoltà create dalla concezione autoritaria della teoria morale di Ockham.

Conclusione

Come abbiamo potuto constatare, il fondamento ontologico dell'ordi­ne etico, secondo Ockham, è la dipendenza dell'uomo da Dio, la dipenden­za della creatura dal Creatore, e il contenuto della legge morale è fornito dal precetto divino. La concezione personale della legge morale è intimamente connessa con la insistente accentuazione che Ockham fa dell'onni­potenza e della libertà di Dio. Per Ockham è la volontà divina che costitui­sce il criterio o la norma ultima della moralità: la legge morale ha il suo fondamento nel libero decreto della volontà di Dio piuttosto che nell'es­senza divina. Inoltre, non esita a trarre le logiche conclusioni da questa sua posizione. Come creatore e conservatore dell'universo, Dio concorre a qualunque atto dell'uomo, pur anche allo stesso atto di odiare Dio (nell'i­potesi che questo atto fosse comandato da Dio « de potentia absoluta »). In questo caso, si potrebbe affermare che Dio è la causa totale dell'atto di odiare Dio senza nessuna malizia morale da parte dell'uomo. Nessuno può dire che ad Ockham mancasse il coraggio nel fare simili affermazioni nella sua teoria personale dell'etica. Si deve, tuttavia, rilevare che la sua tesi so­stiene che ogni atto di odiare di Dio, è nello stato attuale peccaminoso, precisamente perché Dio lo proibisce. Ovviamente, l'intenzione del pensa­tore francescano fu di accettare l'onnipotenza e la libertà di Dio e non di incorarggiare l'immoralità. Non fa senso, quindi, ricercare una ragione del­la legge morale fuori del « fiat » divino. Nel caso dell'uomo l'obbligazione nasce dall'incontro di una volontà libera creata con un precetto esterno. Tuttavia, nel caso di Dio, non può esistere questione di un precetto ester­no. Che Dio abbia ordinato questo atto e abbia proibito un altro atto, que­sto si spiega unicamente dal libero decreto della volontà di Dio, e ciò co­stituisce una ragione sufficiente. Qui si fa molto evidente l'elemento volon­tario e autoritario nella teoria etica di Ockham. Si potrebbe obiettare che in questa etica può esistere soltanto una etica « rivelata ». Questo però Ockham non lo afferma; egli ribadisce che senza la rivelazione l'uomo può conoscere la legge morale parzialmente, in qualche senso limitato; al mas­simo può elaborare una etica di tipo aristotelico fondata totalmente sulla « recta ratio ». In fine, merita osservare che Ockham parla di un atto che è intrinsecamente e necessariamente virtuoso « stante ordinatone divi­na »: si deve seguire il dettame della coscienza perché Dio vuole così. Al­trove dice che nell'ordinazione attuale « stante ordinatione quae nunc est », nessun atto è virtuoso se non è fatto in conformità alla retta ragione. Questa osservazione ritiene il suo valore: un atto necessariamente virtuoso è tale soltanto in senso relativo, cioè solamente se Dio ha decretato che ta­le atto sia virtuoso. Dato l'ordine stabilito da Dio, segue logicamente che alcuni atti sono buoni e altri atti sono cattivi, ma l'ordine morale, in se stes­so, dipende sempre dal decreto della volontà divina.

Merita una considerazione particolare la soluzione che Ockham pro­pone per quattro distinti problemi: a) la relazione che esiste tra amore di Dio e obbedienza a Dio; b) può Dio comandare all'uomo di operare il ma­le?; e) può Dio causare l'odio di se stesso nella volontà creata?; d) può Dio comandare che egli non sia amato o che sia odiato? .... Nel rispondere a tutti questi interrogativi Ockham introduce delle distinzioni abbastanza sottili che esigerebbero una particolare riflessione logica e ontologica per essere adeguatamente comprese.

In disaccordo con Scoto, Ockham sostiene che l'atto esteriore non possiede una moralità distinta da quella dell'atto interiore. Mentre secon­do il Sottile, la prudenza attuale è la sola causa efficiente dell'atto virtuoso, Ockham insiste nell'affermazione che la prudenza attuale è una causa par­ziale, siccome c'è anche l'attività della volontà coinvolta nell'atto virtuoso.

Per quanto concerne la natura della moralità, si osserva un'altra diver­genza tra Scoto e Ockham. Secondo Scoto, la sostanza dell'atto virtuoso e dell'atto vizioso può essere la stessa: l'atto è virtuoso o vizioso dipenden­temente dalla conformità alle circostanze richieste; quindi la rettitudine ag­giunge qualcosa di più alla sostanza dell'atto. Ockham, invece, ritiene che la sostanza dell'atto è identica con la rettitudine dell'atto. Ammettendo che la deformità morale consiste nella mancanza di rettitudine, tuttavia, secon­do Scoto tale mancanza sta nell'atto, mentre secondo Ockham la stessa mancanza sta nella volontà del peccatore.

La filosofia di Ockham è stata giustamente considerata come la filoso­fia dell'uomo credente. Questa affermazione, a nostro giudizio, diventa evi­dente e acquista importanza notevole nel suo insegnamento nel campo del­l'etica.


 


 


 
 
 
 
 
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