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Rivista Antonianum
Informazione sulla pubblicazione

 
 
 
 
Foto Messa Pietro , Recensione: PAOLO EVANGELISTI, I Francescani e la costruzione di uno Stato. Linguaggi politi-ci, valori identitari, progetti di governo in area catalano-aragonese , in Antonianum, 82/3 (2007) p. 582-585 .

Il presente volume si presenta come un ampliamento e un ulteriore tassello degli studi che l’Autore da diversi anni sta conducendo circa il rapporto tra Frati Minori, economia e linguaggio politico, a cui va aggiunta ulteriormente la relazione tenuta al Convegno Internazionale di Studi Francescani in Assisi nel 2006, in cui egli si concentra su uno dei regni della confederazione aragonese, quello maiorchino, e su un francescano di notevole rilievo come Filippo, “principe” e tutore reggente di quella corona. Il capitolo primo, Il Francescanesimo, élite itinerante e classe dirigente del Mediterraneo. Una premessa (p. 9-28), costituisce una vera e propria introduzione, che parte dalla semplice constatazione della presenza presso la corte catalana-aragonese di numerosi Minori, ossia di «viri evangelici culturalmente e tecnicamente preparati non solo per definire modelli dominativi e pratiche di governo, ma capaci di fornirli e trasferirli ad una classe dirigente» (p. 9). Nell’attenzione al linguaggio elaborato, usato e trasmesso è evidente «l’osmosi possibile tra linguaggi dell’etica di governo e quelli dell’etica di mercato» (p.19). L’analisi linguistica è ciò che caratterizza lo studio qui presentato e perciò non meraviglia che termini come lessema e sintagma siano impiegati abbondantemente per cogliere soprattutto gli spostamenti semantici di parole come caritas, utilitas publica, avaritia, fidelitas e altre ancora. Sostanzialmente sono individuate due generazioni di frati: alla prima, rappresentata da Arnau de Vilanova e Ramon Llull, fa seguito dagli anni ’60 del secolo XIV una generazione che, soprattutto nei suoi epigoni Francesc Eiximenis e Matteo d’Agrigento, giungerà a precisi e ben codificati progetti comunitari.

Il capitolo secondo, Tra Due e Trecento. I pauperes Christi e la definizione di modelli di organizzazione sociale e politica (p. 29-157), è fondamentalmente dedicato a Arnau de Vilanova e Ramon Llull i quali – inseriti in una ben precisa tradizione francescana catalano-aragonese – elaborano una teologia civile, radicata nella «nozione di comunità mistica evangelica validata dalla sacralità della passio Christi» (p. 52). Tenendo conto di ciò non meraviglia, ad esempio, che la pedagogia proposta da Arnau si presenti contemporaneamente valida sia per la corte aragonese, ma anche per i beghini che si riconoscono nella Terza regola francescana. La caritas è il fattore esclusivo e costitutivo della comunità, come ricorda Llull, che la contrappone ad avaritia ed accidia, ossia alla pigritia avara. In questo modo il discorso politico ed economico, ossia il compito dei governanti e dei mercanti, si intersecano nelle motivazioni. Questa visione presuppone non solo la presenza di fideles ma anche la lotta agli infideles nemici di Cristo e del bene comune, che devono essere combattuti con ogni mezzo, comprese la coazione e le armi; in questo ambito l’A. ritiene che uno studio che si areni nelle secche della presunta alternativa tra missione e crociata non ha un «reale interesse storiografico» (p.124). Nemici non sono soltanto gli infideles – identificati nei gentili, ebrei, saraceni, eretici – ma anche i fideles che rifiutano di partecipare al bene comune, ad esempio alle crociata. Il fine è la propagazione della fede come dimostra l’intensa attività di Llull, indirizzata principalmente al missionario; per il filosofo maiorchino lo stesso mercante è considerato uno dei principali artefici della missionarietà.

Nel capitolo terzo, La legittimazione della politica e del mercato nelle mani delle generazioni minoritiche tre-quattrocentesche (p.159-307), sono analizzati i contributi del minoritismo politico tardotrecentesco e quattrocentesco, soprattutto di Francesco Eiximenis e Matteo d’Agrigento, con approfondimenti specifici dedicati anche ad Anselm Turmeda e Joan Eixemeno. Essi riprendono il linguaggio della generazione precedente per costruire una vera e propria strumentazione atta a ben precise realtà politiche-territoriali. Matteo d’Agrigento ad esempio, inviato nei territori catalani da Bernardino da Siena in seguito ad una specifica richiesta di Alfonso il Magnanimo, non solo si sposta continuamente nei territori catalano-aragonesi, ma gli stessi regnanti ritengono la sua predicazione utile per tutti i cives, soprattutto per chi ricopre funzioni politiche o amministrative. Il bene pubblico è il massimo valore della civitas, e pertanto, tutti coloro che pensano ai soli beni privati sono esecrabili e nemici, dediti alla sodomia e all’avaritia. Per Francesco Eiximenis è fondamentale la figura del mercante, verso il quale non deve mai mancare la credibilità e la fiducia, veri e propri fondamenti della coesione comunitaria. In questo contesto si comprende, ad esempio, perché il sermone sulla “mercancia” di Matteo d’Agrigento dichiari l’equivalenza e l’identificazione tra il bene della comunità cittadina, composta di soli cristiani e gli interessi del mondo degli scambi commerciali. Non meraviglia che l’accidia sia il peccato mortale antipolitico per eccellenza, come afferma Francesco Eiximenis: infatti ogni cives è chiamato a ricambiare l’atto redentivo di Cristo svolgendo il proprio ruolo attivo all’interno della società. Caritas e fides denotano il servus Dei, non più inteso come il genere di vita del consacrato, ma una serie di comportamenti laici, economici e politici vissuti rettamente. Le teorie eximeniane furono accolte puntualmente dai Martini in Sicilia, a cavallo tra XIV e XV secolo, e ciò fu richiesto dallo stesso Frate che, scrivendo al futuro re d’Aragona, afferma che «conviene che voi vi convertiate un poco a san Francesco» (p.306), testimoniando «la piena consapevolezza e la rivendicazione del ruolo politico che l’Ordine francescano sta svolgendo non come mero sostegno alla Corona, ma come soggetto capace di fornire garanzie sul piano della legittimità e dell’organizzazione del potere e, insieme, consilia puntuali sull’“arte del governo”» (p. 306). Importante l’osservazione dell’A. il quale, portando esempi espliciti, ricorda che tutto «ciò non deve farci dimenticare che l’Ordine serafico non si comporta come una struttura monolitica allineata a fianco, o al “servizio” della Corona» (p.289). L’ampia Bibliografia (p.309-328) indica la scientificità del volume qui presentato, mentre l’indice dei nomi rende l’opera di facile consultazione. Certamente una conclusione finale con un ricapitolo dei risultati raggiunti e le piste di ricerca aperte avrebbe facilitato la comprensione anche al lettore meno ferrato negli studi del minoritismo catalano-aragonese.

L’attenzione all’analisi semantica dei testi permette all’A. di evitare una generalizzazione che tende a cogliere, ad esempio, istanze gioachimite in ogni richiamo escatologico, oppure supposti “germi rivoluzionari” antagonisti della societas christiana, riconoscendo invece la presenza di una precisa responsabilità etica del fidelis nel suo agire economico e politico che deve essere finalizzato al bene della comunità. Evangelisti sostiene acutamente che «nella comprensione di questa testualità “mistico-ascetica”, ma anche di quella “profetico-millenaristica” occorre superare un’ermeneutica che, fondandosi sulla “tipologia” e sul “genere” di queste fonti, rischia di sequestrarle dal loro contesto complessivo o di trasformarle in proiezioni sociologico-religiose di alcuni topoi storiografici» (p.149). Riconoscendo che nei pensatori francescani catalani vi è «il ricorso ad una comune matrice linguistica cristiana», l’A., richiamando Todeschini, afferma che si tratta «di un percorso linguistico-concettuale obbligato poiché [esso si sviluppa] naturalmente all’interno dell’unica lingua disponibile […] che nasce nella testualità patristica e canonistica» (p.152). Pur riconoscendo la veridicità di questa affermazione, nasce tuttavia la domanda se veramente tale percorso linguistico fu “obbligato”, ossia ineludibile, o se vi fu una elaborazione e una scelta del linguaggio da parte dei diversi autori che fecero sì uso di un tale linguaggio, ma in modo selettivo e creativo, come sembrano dimostrare alcuni passi del presente volume di Evangelisti (p. 203.210.283-284 dove appaiono, ad esempio nei progetti comunitari ed identitari di Francesco Eiximenis, del tutto assenti l’elemento dell’etnos, il superamento di alcune tesi tomiste e la mancanza dell’esaltazione dell’uccisone dei nemici come “opus divinum”).

Fin dall’inizio del volume, Evangelisti sottolinea che i Frati Minori considerati nel presente studio sono «uomini che, molto spesso, indossando l’abito religioso francescano non dismettono, ma anzi rafforzano, la loro attrezzatura culturale, la loro formazione e la loro identità di uomini di diritto o di uomini pienamente partecipi, per capacità, per appartenenza familiare, della comprensione del mondo, del mercato e della politica» (p.16-17). Tale esito non è scontato, essendoci casi in cui la conversione alla religio dell’autospossessamento volontario induce a rinunciare completamente alla precedente formazione culturale e professionale; ciò fa sorgere la domanda circa quale modello culturale e spirituale di francescanesimo abbia ispirato questi frati, ossia le loro letture e ideali, trasmessi soprattutto nei primi anni della formazione religiosa. Questo è importante visto che, ad esempio, in Francesco Eiximenis l’identità minoritica – formatasi negli studia di Oxford e Tolosa, ed indubbiamente segnata dal pensiero scotista - diventa base strumentale per il suo discorso facendo ricorso al «patrimonio dei versetti evangelici e testamentari che appartengono alla testualità dell’apologia e dell’identità francescane» (p.271) per legittimare e dare forza alla comunità, alle relazioni “caritative” e fiduciarie del mercato.


 
 
 
 
 
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